domenica 21 aprile 2013

La petizione di principio per tutti

Nel mio ultimo post accusavo Calasso di lardellare una sua argomentazione di petizioni di principio. Una cortese commentatrice chiede cortesemente lumi sulle p. di p.

Semplificando fin quasi a barare, una pdp è un “dare per scontato”, affermare qualcosa senza giustificarlo o dimostrarlo. E Calasso lo fa abbondantemente, ma lo fanno, e facciamo, tutti.

Un po' più precisamente, si ha una pdp quando si basa un ragionamento su una premessa che sia non meno indimostrata e discutibile della conclusione e che venga assunta senza che l'interlocutore l'abbia accettata. E qui siamo in pieno territorio calassiano. Riporto qui per comodità il periodo che citavo:
Se ovunque, nelle foreste brasiliane come nel deserto del Kalahari, nella Cina arcaica come nella Grecia omerica, in Mesopotamia e in Egitto come nell'India vedica, la prima forma in cui si è manifestato il linguaggio è stata quella del racconto - e ogni volta di un racconto che parlava di esseri non del tutto umani -, questo presuppone che nessun altro uso della parola apparisse più efficace per stabilire un contatto con entità che ci avvolgono e ci sopravanzano. (Roberto Calasso, L'impronta dell'editore, Adelphi, 2013, pag. 73)
La frase è in forma di periodo ipotetico, e l'articolata protasi non è molto più facile da accettare, ovvia o assodata dell'apodosi. La premessa è tutt'altro che pacifica, il nesso logico tra la premessa e la conclusione non è pacifico, il fatto che la conclusione sia presentata come qualcosa che la premessa fa “presupporre” rasenta l'enigmatico, e poi ci sono tutte quelle premesse implicite, date ancor più per scontate, sull'esistenza stessa di “entità che ci avvolgono e ci sopravanzano”.

Infine, nella logica classica, la pdp è una fallacia in cui, per dimostrare qualcosa, lo si assume come se fosse già dimostrato (senza farsi sgamare, si spera). Essenzialmente, si prende come premessa una riformulazione della conclusione. Per esempio, “è inammissibile che persone dello stesso sesso si sposino, perché il matrimonio è un'unione tra un uomo e una donna”.

Per fare i poliglotti, “petizione di principio” è un calco del latino petitio principii, che rende  il greco αἰτεῖσϑαι τὸ ἐν ἀρχῇ (“chiedere ciò che è all'inizio”). L'inglese usa la locuzione begging the question, che è però a volte usata in modo improprio nel senso di “sollevare una questione” o di “evitare una domanda”.
   Un'ultima considerazione: sia in una petizione di principio che in un postulato si sta “chiedendo” all'interlocutore immaginario di accettare qualcosa, ma mentre nel primo caso lo si fa surrettiziamente, nel secondo la richiesta è palese (“bear with me, se accetti questi postulati ti dimostro delle cose meravigliose”).

sabato 20 aprile 2013

Sostiene Calasso

Sostiene Roberto Calasso:

Se ovunque, nelle foreste brasiliane come nel deserto del Kalahari, nella Cina arcaica come nella Grecia omerica, in Mesopotamia e in Egitto come nell'India vedica, la prima forma in cui si è manifestato il linguaggio è stata quella del racconto - e ogni volta di un racconto che parlava di esseri non del tutto umani -, questo presuppone che nessun altro uso della parola apparisse più efficace per stabilire un contatto con entità che ci avvolgono e ci sopravanzano. (Roberto Calasso, L'impronta dell'editore, Adelphi, 2013, pag. 73)

Quante petizioni di principio, esplicite o implicite ci trovate? Io almeno quattro, e non sto contando separatamente Brasile, Kalahari, Cina etc.

sabato 6 aprile 2013

Belgi, forse?

Tutti i refusi sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri, se compaiono in una scritta di poche parole e che dovrebbe dare fiducia a un potenziale cliente...

(In realtà lo scopo principale di questo “post” un po' insulso è di collaudare le meraviglie della possibilità di bloggare dal telefonino.)


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