Su
Metro (il quotidiano distribuito gratuitamente) di oggi, a pagina 16, appare un editoriale intitolato “L'università non serve” a firma di Mariano Sabatini. (Penso che si possa vedere
qui, ma il loro sito è sempre arduo da percorrere.)
Lo spunto è la prova scritta di italiano per l'esame di maturità che si tiene oggi, e il consiglio agli studenti delle superiori è di non voler a tutti costi proseguire gli studi. Infatti, spiega Sabatini, “la sensazione, suffragata dai dati apparsi su queste pagine giorni fa, è che l'università non sia più garanzia di impiego sicuro” (ma va!).
La cosa che mi lascia perplesso arriva alla fine: “Non è scontato che i campeggiatori a vita degli atenei siano più colti di chi decida di cominciare prima possibile a misurarsi col difficile mondo del lavoro. Meglio un appassionato ebanista, che magari la sera legge Tolstoj o Camilleri, di un illuso ricercatore che, sfruttato dal ‘barone’ di turno, non ha neppure il tempo di sfogliare un fumetto”.
Se “meglio” significa che è più felice, può essere benissimo, o forse no. È più felice un ciclista professionista con l'hobby dell'ikebana o un macellaio che suona il violoncello? O uno spazzino innamorato che dedica ogni minuto libero alla persona amata? Chi può dirlo?
Se, come sembra, stiamo dicendo che il lettore di Tolstoj e Camilleri è più colto del ricercatore, anche qui non abbiamo alcun elemento per dirlo: può essere e può non essere. Forse il ricercatore, per quanto sfruttato, è esperto di teoria delle stringhe, di genetica o di paleografia medievale, e allora tanto incolto non sarà. È quasi come se si desse per scontato che il lavoro principale non contribuisca alla cultura, che sarebbe invece formata solo dalle letture serali di Camilleri...