lunedì 29 novembre 2010

La debolezza della crittografia

Se volete un trattamento semplice ma rigoroso, leggibile ma impeccabile della crittografia moderna e in particolare della crittografia a chiave pubblica, fate qualsiasi cosa ma non leggete il ridicolo articolo La forza della crittografia comparso sulla Repubblica in rete con la scusa di parlare dei Wikileaks.

Giusto per avere un'idea di che cosa vi aspetta, sappiate che se per decrittare qualcosa usate un metodo basato sulla forza bruta, “la variante cruciale qui diventa il tempo a disposizione per farlo, calcolato in anni luce informatici”.

Per il resto si cita Dan Brown, si esprimono poche idee ma molto ben confuse sulla chiave pubblica e quella privata, e altre amenità.

martedì 23 novembre 2010

La SIAE e le frutterie

Stavo leggendo le norme che disciplinano le fotocopie (anzi, la reprografia) delle opere coperte da diritto d'autore, nella relativa pagina di F.A.Q. della SIAE. Vi si spiega che il limite, sia pure a pagamento, è del 15% per uso personale, e si esamina in dettaglio che cosa devono fare le copisterie, le biblioteche etc.

Dopodiché si arriva a un punto enigmatico:
Esercizi che non fotocopiano i testi.  
Come dovranno comportarsi gli esercizi commerciali che non svolgono attività di fotocopiatura dei testi? 
Non dovranno compiere alcuna formalità. La loro attività potrà comunque essere sottoposta alle verifiche e ai controlli previsti dalla Legge.
Cioè? I fruttivendoli non devono spacciare cocaina?

lunedì 1 novembre 2010

Roma capitale del Photoshop

Da qualche tempo a Roma si vedono (per qualche motivo, soprattutto dentro le stazioni della metropolitana) alcuni manifesti che magnificano il nuovo status di “Roma Capitale” in cui si è trasformato da qualche settimana il comune di Roma, in base a una nuova legge che dovrebbe assicurare “più poteri, più risorse, più autonomia di gestione”. Può pure essere, per quel che ne so.
Questi manifesti, nello specifico, vorrebbero mostrare le meraviglie artistiche e naturali di Roma. Uno in particolare - che riproduco qui - mostra il Pantheon in un'ora incerta della prima mattinata o della sera incipiente vantando “Il più grande patrimonio storico artistico al mondo. Appartiene a te” (cliccate per ingrandire; l'originale è qui).


Vedendo la foto si ha una generica sensazione di uncanny valley, e sulle prime ci si chiede il perché. Sarà l'ora misteriosa, il fascino della luce che sembra venire da varie parti simultaneamente? Sarà l'assoluta assenza di persone, veicoli, oggetti? Sarà il fatto che ci sono quattro colonne esattamente uguali...? I romani non scherzavano quanto a grandi opere, e il Pantheon è un capolavoro di ingegneria ineguagliato per molti secoli, ma quattro colonne identiche? Comprese le crepe e le irregolarità? E le scritte fantasma sopra le colonne? E le finestre ripetute più volte del palazzo sulla destra? E il tetto impossibile dell'edificio in fondo a sinistra? E il comignolo volante in alto a destra?

(Se non avete presente il Pantheon, vi assicuro che quasi qualsiasi foto trovata a caso in rete rende l'idea meglio di questa immagine artefatta indegna di Second Life.)

Evidentemente 'sto patrimonio artistico non è un gran che, se per renderlo degno di un manifesto pubblicitario richiede una buona dose di (pessimo) Photoshop.

sabato 30 ottobre 2010

Pascal e la sua scommessa

La rivista “Noncredo”, nel suo numero di novembre/dicembre 2010, ha pubblicato un mio nuovo articolo, dopo quello sulla cosiddetta dimostrazione dell'esistenza di dio formulata da Gödel. Questa volta ho parlato della scommessa di Pascal.

La scommessa di Pascal

Daniele A. Gewurz


Pascal è uno dei grandi pensatori dell'epoca moderna. In ambito scientifico gli dobbiamo contribuiti fondamentali in fisica, soprattutto sulla dinamica dei fluidi, e in matematica, tra l'altro sul calcolo delle probabilità, di cui fu uno degli iniziatori, insieme a Fermat. Lo spunto venne dal gioco d'azzardo: un amico giocatore lo aveva interpellato sul modo migliore di ripartire la posta in un certo gioco se la partita veniva sospesa prima della fine.

Questi interessi di Pascal si ritrovano anche nella sua trattazione di temi filosofici e religiosi, tra cui la celebre argomentazione sulla fede come scommessa. Ne parla nel capitolo 233 dei suoi Pensieri (in alcune edizioni tra cui quella classica curata da Brunschvicg; corrisponde al cap. 164 dell'edizione italiana curata da Serini, da cui qui si cita). Il capitolo si intitola, o almeno inizia con, “Infinito, nulla”: e in effetti proprio su un confronto tra una possibile ricompensa infinita e una nulla si basa la scommessa pascaliana.




Scommettiamo

Dopo alcune considerazioni in cui si mescolano la morale e l'infinito in astratto, arriva la celebre argomentazione basata sul calcolo delle probabilità.

“Diciamo: «Dio esiste o no?» Ma da quale parte inclineremo? La ragione qui non può determinare nulla: c'è di mezzo un caos infinito. All'estremità di quella distanza infinita si gioca un giuoco in cui uscirà testa o croce. Su quale delle due punterete? Secondo ragione, non potete puntare né sull'una né sull'altra; e nemmeno escludere nessuna delle due.”

Pascal esordisce quindi dichiarando che la ragione non può trarre conclusioni sull'esistenza di dio, e qui si affaccia una prima incongruenza nella sua argomentazione. Nel seguito di fatto si rivolge alla razionalità del lettore, se non per trarre conclusioni sull'esistenza di un dio, per proporgli quelli che secondo lui sono validi motivi oggettivi per credere, o almeno agire come un credente, anche se non si sente la fede. E si tratta di motivi che si basano interamente sulla logica e sul calcolo delle probabilità.

Ricordiamo al volo un concetto del calcolo delle probabilità, centrale per questo tipo di ragionamento: quello di valore atteso (o speranza). Quando si ha una situazione che può avere vari possibili esiti, come le diverse quantità di denaro vinte o perse in un gioco d'azzardo, il valore atteso dell'esito è una media di tutti questi possibili esiti, ponderata in base alle probabilità dei diversi esiti. Supponiamo di partecipare a un gioco in cui dobbiamo lanciare una moneta, vincendo 10 euro se otteniamo testa e perdendone 2 se otteniamo croce. Allora, assumendo che la moneta dia testa il 50% delle volte e quindi che la probabilità di ottenere testa sia 0,5 (e altrettanto quella di ottenere croce), il valore atteso della vincita sarà (0,5 × 10) + (0,5 × (-2)), cioè 4. Quindi se la partecipazione a questo gioco costa una cifra maggiore di 4 euro il gioco sarà iniquo.




Conviene credere?

I dettagli del ragionamento di Pascal non sono chiarissimi, perché a tratti il suo stile è piuttosto oscuro ma, semplificando, la sua tesi è che la fede in dio può essere scelta consciamente, come in un gioco d'azzardo. Il valore atteso della vincita è infinito, mentre il costo per partecipare è finito: quindi conviene partecipare.

Dice Pascal: “Siccome c'è eguale probabilità di vincita e di perdita, se aveste da guadagnare solamente due vite contro una, vi converrebbe già scommettere”. Quasi nessuno, però, sarebbe d'accordo nell'assegnare la stessa identica probabilità all'esistenza di quel particolare dio che ha in mente Pascal e alla sua inesistenza. E non vale il discorso in base al quale, in assenza completa di informazioni, tutti gli esiti sono ugualmente probabili. Prima di tutto, ognuno di noi ha qualche motivo per propendere verso l'una o l'altra di queste possibilità: non si tratta di una di quelle situazioni astratte in cui si parla del contenuto di una busta di cui non si sa niente, o simili. E poi che dire di tutte le altre religioni e filosofie e forme di pensiero? Se volessimo mostrare la massima equanimità e ammettere di non avere assolutamente alcuna preferenza per nessuna delle visioni dell'universo presenti, passate, future o anche solo lontanamente immaginabili, allora dovrebbero avere tutte la stessa probabilità, ed ecco che al dio di Pascal dovremmo attribuire una probabilità minuscola.

Ma, sostiene poi Pascal, “qui c'è effettivamente un'infinità di vita infinitamente beata da guadagnare, una probabilità di vincita contro un numero finito di probabilità di perdita, e quel che rischiate è qualcosa di finito”. È qui il nucleo del discorso di Pascal. In palio c'è ciò che viene promesso ai buoni credenti, una vita eterna di beatitudine, mentre il prezzo per partecipare al “gioco” consiste nell'adeguare la nostra vita a certi dettami (credere in dio, andare a messa, non compiere certe azioni, compierne altre). In termini di valore atteso, Pascal afferma che il premio in palio (la beatitudine eterna) ha un valore infinito e che la probabilità di ottenerlo è piccola ma comunque maggiore di zero (una contro un numero finito). Quindi, il valore atteso di questo “gioco” è infinito, mentre il prezzo da pagare per accedervi è solo finito (abbracciare una vita cristiana).


Quanto vale una vita da laico?

Ora, ognuno degli elementi di questo ragionamento può essere messo in discussione. I valori da assegnare ai vari aspetti della scommessa - necessari al fine di confrontare il valore atteso con il prezzo da pagare - sono molto soggettivi. Che “valore” ha imporsi uno stile di vita diverso da quello per cui si è portati? Sarà vero che la probabilità di un aldilà eterno e beato è non nulla?

Più in generale, molti hanno considerato discutibile il fatto stesso di impostare le proprie opinioni religiose su ragionamenti “utilitaristici”. Le teorie decisionali che si basano sul massimizzare il valore di qualche funzione sono di importanza fondamentale in campo economico e sociale, ma non è detto che siano appropriate qui. Voltaire, commentando Pascal, arriva a dire che questo discorso appare “un po' indecente o puerile: questa idea di gioco, di perdita e di guadagno, non si addice alla gravità dell'argomento”.

In tutto ciò poi, persino se uno fosse convinto dalle argomentazioni pascaliane, non è ben chiaro come sia possibile credere a comando, per conscia scelta utilitaristica. Secondo Pascal, una volta scelto razionalmente di credere, ci si comincia a comportare esteriormente da bravo cattolico, “prendendo l'acqua benedetta, facendo dire messe, ecc.”, e il resto segue da solo. Quindi, di nuovo, la posta da puntare è altissima: intraprendere una vita ipocrita e tradire la propria integrità intellettuale.

Ma soprattutto, non è chiaro perché un ipotetico dio debba apprezzare questo tipo di fede “interessata”. Non potrebbe invece apprezzare la sincerità delle intenzioni più di un comportamento deciso a tavolino? O magari aver semplicemente già deciso all'inizio chi sarà salvato, come in quelle dottrine anche cristiane che credono nella predestinazione?


Un sito e un film

A chi vuole approfondire, consiglio la dettagliata voce dell'enciclopedia filosofica online della Stanford University: http://plato.stanford.edu/entries/pascal-wager. Per un approccio più lieve, la scommessa pascaliana, con alcune interessanti applicazioni anche al marxismo e ai rapporti tra uomini e donne, ricorre nelle conversazioni dei protagonisti del film La mia notte con Maud di Éric Rohmer.

mercoledì 27 ottobre 2010

I bollenti spiriti

Tra le perle della neolingua, una - e non certo la maggiore - è l'uso di “bollente”. Molti lo intendono e usano come se significasse “caldo”, o “molto caldo”, o “molto molto caldo”. Il problema è che il fatto che qualcosa bolla non dice niente sulla temperatura di quello che sta bollendo, ma solo che sta passando tumultuosamente dallo stato liquido a quello gassoso. Difficilmente il tetto della macchina sarà davvero bollente. E d'altro canto l'azoto può bollire a circa 200 gradi sotto zero.

Ma qui non si sarebbe veri pignuoli se non si ammettesse questo uso di “bollente” non è nuovo, né inedito. Già Vincenzo Monti, nei versi “in morte di Lorenzo Mascheroni” parlava del “mar della bollente araba sabbia”.

giovedì 21 ottobre 2010

Ucronie

Segnalo un concorso per un racconto (fantastico, opzionalmente) di ambientazione ucronica:
Il blog sull'orlo del mondo - Ucronie Impure: bando del concorso: "Per racconti ucronici puristi [...] s'intendono ambientazioni simili a quella di Fatherland. Per le altre prendete come punti di riferimento il ciclo dell'Invasione di Harry Turtledove, il medioevo alternativo di Luxley, oppure la Guerra Fredda ucronica di Watchmen, tanto per fare degli esempi. Saranno ovviamente accettate anche derive dieselpunk e steampunk, laddove è comunque da intendersi che la particolarità del racconto deve concentrarsi sull'aspetto ucronico/storico."

venerdì 23 luglio 2010

Parla come magnas


E dire che scrivere un'espressione in vero latino - ammesso poi che ci sia un motivo per farlo - sarebbe stato tanto più semplice... Sono disponibili anche un “espressum” e altre prelibatezze linguistiche che nemmeno Romolo Augustolo, il tutto all'insegna del motto “VENI VIDI MAGNI E BEVI”.

giovedì 8 luglio 2010

Devisement du monde

Riferisco qui, senza far nomi, qualcosa che ho appreso da una lista di discussione per traduttori che frequento.

Una certa piccola casa editrice tiene periodicamente una sorta di brevissimi “corsi” - tre ore - che sono in realtà modi per attirare giovani aspiranti traduttori. Tra le altre peculiarità di questi incontri, viene enunciata la tesi che un italiano possa benissimo tradurre dall'italiano in una lingua straniera, cosa con cui la maggior parte dei traduttori e editori in generale discorda. I loro motivi sono probabilmente anche economici: costa molto più un traduttore professionista madrelingua inglese che sappia bene l'italiano, che non un principiante italiano che mastica un po' di inglese. (Il risultato non è lo stesso? Davvero?)
Perché cercano traduttori dall'italiano verso lingue straniere? Ovviamente per diffondere nel mondo la conoscenza della letteratura italiana. E per chiarire meglio questo concetto, fanno l'esempio di Marco Polo...

(Non offenderò i miei 2,5 lettori ricordando loro che, a prescindere dal valore letterario delle memorie di viaggio di Marco Polo, il vero problema è che 1) non ne fu lui l'autore ma le raccontò a Rustichello da Pisa che le scrisse come gli pareva; 2) ma, soprattutto, Rustichello da Pisa scriveva in francese...)

lunedì 28 giugno 2010

La situazione internazionale è un po' meno instabile

Quelli tra i miei 2,5 lettori che seguono con apprensione le vicende geopolitiche dell'Europa centrale non avranno più dormito sonni tranquilli da quando, quasi un anno e mezzo fa, ho segnalato il fatto che il Liechtenstein non aveva ancora riconosciuto le repubbliche ceca e slovacca e viceversa.
Con colpevole ritardo posso restituire loro la serenità: il mio “post” deve sicuramente aver smosso qualcosa in alto loco, perché nel giro di qualche mese il principato centroeuropeo ha stabilito relazioni diplomatiche con le due nazioni slave. Qui ci sono i comunicati ufficiali del governo del Liechtenstein.

La pace è tornata a Vaduz.

sabato 26 giugno 2010

Attenti ai vampiri

Se avete paura che, mentre fate le vostre spese in centro, possa aggredirvi un vampiro, a chi vi potete affidare se non al cugino motorizzato di Van Helsing? “Van Scharing”!

giovedì 24 giugno 2010

È emergenza “criticità”

Un amico mi chiede che cosa ne penso (o, volendo, che cosa ne pensa l'Accademia) dell'abitudine di usare “criticità” nel senso di “questione da affrontare urgentemente”, come in “le criticità del progetto in questo momento sono...”, considerando anche che, di fronte ai suoi tentativi di sostituirlo con qualche altro termine che suoni meglio, i colleghi del mio amico rispondono che questa parola “sta nel vocabolario”.

La mia modesta opinione è che i colleghi di cui si parla probabilmente non hanno ben chiaro che non è che un vocabolario autorizzi a usare una certa parola in un certo modo: al contrario, se una parola entra nell'uso in un certo modo, prima o poi i vocabolari ne prendono atto, fosse anche che la gente si mette a chiamare “carciofi” le melanzane. (Anzi, certi vocabolari sono molto lesti nell'incorporare nuovi lemmi e nuove accezioni: se si vuol pubblicare una nuova edizione ogni anno, più roba c'è e meglio è.) È quasi come se un rapinatore mostrasse il giornale che parla della sua impresa per dimostrare che ha fatto bene a commetterla.
A me personalmente “criticità” suona pessimamente: profuma della pigrizia intellettuale di cui trasudano tutti questi neologismi di marketinghese. Qualcuno li tira fuori per riempirsi la bocca con polisillabi inutili, e altri gli vanno dietro pensando di darsi un tono.
D'altro canto, le lingue evolvono, anche con meccanismi di questi tipo: buona parte dell'attuale pronuncia inglese viene dai vezzi linguistici dei reali e dei cortigiani londinesi dei tempi andati.
In particolare, in questo caso mi sembra che si tratti semplicemente del meccanismo che parte da una parola che denota una certa qualità in generale e porta a usarla per indicare uno specifico oggetto o situazione che possiede quella qualità, un po' come “verità” nel senso generale di “qualità consistente nell'essere vero” rispetto alle singole “verità” filosofiche, scientifiche etc.
Le conclusioni traetele voi.

martedì 22 giugno 2010

Ebanisti colti


Su Metro (il quotidiano distribuito gratuitamente) di oggi, a pagina 16, appare un editoriale intitolato “L'università non serve” a firma di Mariano Sabatini. (Penso che si possa vedere qui, ma il loro sito è sempre arduo da percorrere.)
Lo spunto è la prova scritta di italiano per l'esame di maturità che si tiene oggi, e il consiglio agli studenti delle superiori è di non voler a tutti costi proseguire gli studi. Infatti, spiega Sabatini, “la sensazione, suffragata dai dati apparsi su queste pagine giorni fa, è che l'università non sia più garanzia di impiego sicuro” (ma va!).
La cosa che mi lascia perplesso arriva alla fine: “Non è scontato che i campeggiatori a vita degli atenei siano più colti di chi decida di cominciare prima possibile a misurarsi col difficile mondo del lavoro. Meglio un appassionato ebanista, che magari la sera legge Tolstoj o Camilleri, di un illuso ricercatore che, sfruttato dal ‘barone’ di turno, non ha neppure il tempo di sfogliare un fumetto”.
Se “meglio” significa che è più felice, può essere benissimo, o forse no. È più felice un ciclista professionista con l'hobby dell'ikebana o un macellaio che suona il violoncello? O uno spazzino innamorato che dedica ogni minuto libero alla persona amata? Chi può dirlo?
Se, come sembra, stiamo dicendo che il lettore di Tolstoj e Camilleri è più colto del ricercatore, anche qui non abbiamo alcun elemento per dirlo: può essere e può non essere. Forse il ricercatore, per quanto sfruttato, è esperto di teoria delle stringhe, di genetica o di paleografia medievale, e allora tanto incolto non sarà. È quasi come se si desse per scontato che il lavoro principale non contribuisca alla cultura, che sarebbe invece formata solo dalle letture serali di Camilleri...

lunedì 21 giugno 2010

Pignolerie tra le nuvole

La mia attività blogghistica sta languendo un po', e prima che il lungo silenzio mi renda fioco, segnalo un blog improntato a un sano spirito pignuolo.

Si tratta di Nuvole Anomale, dedicato a errori presenti nei fumetti: errori di continuità, errori fattuali, errori linguistici, e due delle bestie nere dei disegnatori, che sono quasi le icone del blog: le mani a sei dita e i telefoni a disco a nove buchi.
Ma soprattutto, non vi perdete i ricorrenti avvistamenti di Qué, il quarto nipote di Paperino.

venerdì 9 aprile 2010

Il triplo ritratto di Dorian Gray

Di recente ho letto Il ritratto di Dorian Gray di Wilde e ho visto due dei film che ne sono stati tratti, uno nel 1945 e l'altro nel 2009.

Ne esiste almeno una quindicina di versioni cinematografiche, tra cui una ungherese del 1918 con Béla Lugosi e una italo-tedesco-britannica del 1970 con Helmut Berger, di cui è stato detto: “One of the most interesting things Dallamano does with Dorian is to wrap him in Zebra fur. Dorian has zebra drapes on his windows and zebra fur rugs on his floors. By the end of the film Dorian is dressed in a floor length zebra fur coat that would make many pimps in 1970 envious.” (“Una delle cose più interessanti che Dallamano [il regista della versione con Helmut Berger] fa con Dorian è rivestirlo di pelli di zebra. Dorian ha tende di zebra alle finestre e tappeti di zebra sul pavimento. Prima della fine del film Dorian indossa un cappotto di zebra lungo fino ai piedi, che avrebbe reso invidiosi molti papponi del 1970.”)

Di per sé, che un adattamento cinematografico segua più o meno pedissequamente il romanzo che lo ha ispirato ovviamente non dice ancora nulla sulla qualità del film. E non dice molto neppure sulla “fedeltà” intesa in senso generale. Dopo tutto la narrativa e il cinema sono linguaggi diversi, hanno tempi, metodi, sintassi differenti: quindi un film può mantenere buona parte dello spirito del libro di partenza pur prendendosi varie libertà dalla lettera del testo. Ho sentito più volte citare il Signore degli anelli di Peter Jackson come esempio positivo in questo senso, e sono d'accordo.

Che ne è, da questo punto di vista, di queste due incarnazioni su celluloide del romanzo di Wilde?

The Picture of Dorian Gray del 1945 fu scritto e diretto negli Stati Uniti da Albert Lewin, che per buona parte della sua carriera fu soprattutto sceneggiatore, revisore di sceneggiature e produttore esecutivo: i protagonisti sono Hurd Hatfield nel ruolo del protagonista e George Sanders in quello del suo cinico mentore, Lord Henry Wotton (e Angela Lansbury, giovanissima, interpreta Sybil Vane, la prima donna amata da Dorian). Nel Dorian Gray britannico del 2009 i due sono interpretati rispettivamente da Ben Barnes (noto soprattutto come principe Caspian, di Narnia) e Colin Firth: lo sceneggiatore è l'esordiente Toby Finlay, mentre il regista Oliver Parker ha girato un'altra mezza dozzina di film tra cui due produzioni wildiane.

La versione del 1945 è nettamente superiore. Ci sono due aspetti del cinema di quel tempo e luogo che giocarono a favore della sua buona riuscita. Si tratta di due aspetti che a priori sono limiti alla libertà di chi fa un film: il bianco e nero (ma di questo riparliamo subito) e il codice Hays (e di questo parliamo fra poco).

La versione del '45 è in un bel bianco e nero, con eleganti riprese delle case signorili di Dorian e degli altri protagonisti e ombre sinistre che tagliano le scene dei locali malfamati che il nostro frequenta nella sua ricerca del piacere. Il film fa un'unica - anzi, duplice - concessione a un effettaccio per colpire lo spettatore: la prima volta che compare il ritratto del protagonista, perfetto nella sua gioventù e bellezza, e poi di nuovo quando ricompare anni dopo, trasformato dall'età e dai vizî fino a essere irriconoscibile, lo vediamo per pochi istanti nello splendore del Technicolor. Anche se si fosse voluto mostrare in modo più esplicito l'abbrutimento morale di Dorian Gray, in quell'epoca non sarebbe stato possibile.

Notoriamente il codice Hays, o più propriamente il “Motion Picture Production Code”, imponeva limiti strettissimi agli argomenti che si potevano menzionare in un film, e al mondo in cui potevano essere mostrati. In particolare qualunque allusione al sesso era fuori questione. Perfino una coppia sposata non poteva essere mostrata insieme - neppure addormentata - in un letto matrimoniale: non parliamo poi di adulterî, omosessualità, perversioni... Ma in questo caso, trovo che la pruderie del codice Hays e la morale vittoriana dei tempi di Wilde formino un connubio ben sintonizzato: la prima collabora a preservare le allusioni oblique, le ellissi, i cenni fugaci dovuti alla seconda e al buon gusto di Wilde.

Per esempio, nel romanzo si dice che:
Women who had wildly adored him, and for his sake had braved all social censure and set convention at defiance, were seen to grow pallid with shame or horror if Dorian Gray entered the room.

(Donne che avevano adorato appassionatamente [Dorian Gray] e per lui avevano affrontato il biasimo della società e sfidato le convenzioni, furono viste impallidire di vergogna o sgomento se Dorian Gray entrava nella stessa sala.)
E nel film del 1945 viene mostrata questa precisa situazione.

Un altro momento suggestivo dello stesso film è quello in cui Dorian si trova in un locale malfamato dove sta aspettando qualcosa. Ascolta un pianista finché un figuro gli apre una porta che inquadra una scala quasi espressionista che va ai piani superiori: il nostro ne varca la soglia, il figuro lo segue e si chiude la porta alle spalle. Fine della scena.
Il film del 2009, invece, è infinitamente impaziente e anche didascalico: in una situazione analoga ci mostra con gran copia di nudità e umori che cosa succede al piano di sopra. Paradossalmente, sembra un film - per così dire - per bambini. Un adulto può immaginare il tipo di posti in cui Lord Henry porta Dorian per fargli conoscere la vita e i suoi piaceri, ed è a questo adulto che parlano il romanzo e il primo film. Il secondo film invece parla al distratto che, figuratamente, dice: «Dov'è che lo porta? Al circo?», e gli mostra un bordello con dovizia di dettagli. Ovviamente, non c'è niente di male nel mostrare l'interno di un bordello vittoriano, e in altre circostanze può essere un soggetto interessante. Ma qui è, paradossalmente, fuorviante ai fini della storia che racconta. Se Indiana Jones si afferra a una liana per sfuggire a una trappola, Spielberg non si dilunga sui meccanismi biologici che hanno portato alla formazione di quella tal specie di pianta dotata di liane.
Le liane servono a Indiana Jones per salvarsi e far proseguire la storia, così come i locali equivoci servono a Dorian Gray per dannarsi e far proseguire la storia.
Ma la cosa più grave è che essere così espliciti è un po' come spiegare le battute...

martedì 6 aprile 2010

Kurt Gödel e la dimostrazione dell'esistenza di dio

È uscito un mio articolo sull'ultimo numero della rivista “Noncredo”, a proposito della cosiddetta dimostrazione dell'esistenza di dio elaborata da Kurt Gödel. Eccolo qui (compreso il paragrafo finale di bibliografia che non è comparso sulla rivista).

Kurt Gödel e la dimostrazione dell'esistenza di dio

Kurt Gödel fu uno dei più grandi logici di tutti i tempi. Gli si devono alcuni risultati fondamentali in vari ambiti della logica, i più noti dei quali sono i teoremi di incompletezza, che descrivono i limiti intrinseci di qualunque sistema formale.
Tra le carte di Gödel - ne parlò a un collega nel 1970 ma probabilmente risale a molti anni prima - si trova anche una dimostrazione, concisa (due scarse pagine manoscritte) e puramente logica, dell'esistenza di dio. Di fatto si tratta di una rielaborazione delle varie prove ontologiche con cui, da Anselmo d'Aosta a Cartesio e a Leibniz, si è cercato di stabilire per via razionale la necessità dell'esistenza di dio, partendo da una definizione astratta dell'ente supremo e mostrando che come conseguenza di questa definizione l'ente non può non esistere. Una di queste versioni, semplificando, consiste nel dire: “Definiamo dio come l'ente dotato di tutte le possibili perfezioni; esistere è una perfezione (rispetto a non esistere), e quindi dio esiste”.




La dimostrazione di Gödel
La principale novità introdotta da Gödel consiste nell'esplicitare i possibili assunti che prima potevano rimanere impliciti, e nell'usare il formalismo e i metodi della logica modale, cioè di quel tipo di logica che tiene conto delle “modalità”: un'affermazione non è solo vera o falsa, ma può essere vera in modo necessario, oppure possibile (cioè non è necessaria la sua negazione), oppure contingente (cioè non è necessaria né essa né la sua negazione), o altro.
Semplificando, la linea della dimostrazione di Gödel parte dal definire formalmente il concetto di “proprietà positive”. Intuitivamente, si tratta dei classici attributi, o perfezioni, come l'onnipotenza, l'immortalità, la giustizia, la compassione e così via. Ma di tutto ciò, nel testo di Gödel, non si fa menzione. Si descrivono le proprietà positive in astratto, definendole come si fa per gli enti matematici. Si dichiara che l'unione di due proprietà positive è ancora una proprietà positiva, che se una cosa non è una proprietà positiva allora lo è la sua negazione, e così via.
Dio, o meglio la proprietà G che viene interpretata con il significato di “essere dio”, viene così definita come la proprietà consistente nel possedere tutte le proprietà positive.
Vengono inoltre dati alcuni assiomi, i veri e propri punti di partenza del ragionamento, tra cui per esempio il fatto che l'“esistenza necessaria” sia una proprietà positiva, e che ogni proprietà che sia conseguenza di una proprietà positiva sia a sua volta positiva.
A partire dalle definizioni e dagli assiomi si sviluppa una serie di passaggi che, pur costituendo la dimostrazione vera e propria, paradossalmente ne sono la parte meno interessante e più tecnica rispetto all'impostazione generale e agli assunti scelti per dare il via al ragionamento. Applicando gli strumenti della logica modale si deduce dapprima che è possibile che esista qualcosa che ha la proprietà G; e poi che se è possibile che esista allora è necessario. Quindi, dio esiste.

Cosa c'è che non va?
Uno dei meriti dell'operazione di Gödel è di aver precisato compiutamente i termini che si utilizzano in questo tipo di dimostrazione e i rapporti tra essi. Per citare Roberto Magari, “in ogni caso il lavoro di formalizzazione e, di conseguenza, di chiarimento, fatto da [Gödel] è degno di ammirazione anche se, sembra a me, da tali concetti è improbabile cavar fuori qualcosa di rilevante”. Infatti, al di là dei suoi meriti, la dimostrazione di Gödel soffre in buona parte dello stesso tipo di difetti di tutte le altre prove ontologiche che l'hanno preceduta, difetti che già Kant aveva messo in luce.
Innanzi tutto il punto di partenza del ragionamento, cioè gli assiomi che vengono presi come base di tutto il resto, non sono in realtà molto più ovvii o facili da accettare delle conclusioni che ne vengono tratte. È stato anche rilevato che, sebbene gli assiomi non portino a contraddizioni formali, potrebbero dar luogo a una contraddizione una volta interpretati in termini etici o fisici: per esempio si può non concordare sul fatto che l'unione di due proprietà positive sia ancora una proprietà positiva, o sia anche solo concepibile (come succede per attributi non del tutto compatibili come la trascendenza e l'onnipresenza).
Inoltre è difficile, se non impossibile, passare dal mondo puramente astratto delle idee logiche all'esistenza concreta di qualcosa (dio, in questo caso), deducendo questa da quelle. Ed è discutibile già il fatto stesso di considerare l'esistenza in sé come una proprietà o una perfezione. Per molti filosofi si tratta semplicemente della copula di un giudizio, del verbo “essere” di una frase.
Infine molti, anche credenti, non condividerebbero il concetto di dio descritto da questo tipo di dimostrazioni, o addirittura non sarebbero d'accordo con l'idea stessa che sia possibile circoscrivere in termini umani l'essenza di un dio e tanto meno, quindi, manipolarla con procedimenti formali.

Gödel e dio
E allora come è possibile che una delle più grandi menti del XX secolo sia caduta nella secolare tentazione di risolvere con metodi terreni un problema che per sua stessa natura non si presta a questo approccio?
Prima di tutto, stiamo parlando di un appunto privato. È verosimile che sia solo poco più di un esercizio, un'analisi formale di un certo ragionamento, di cui Gödel si limitò a mettere in luce la struttura e a esplicitare il contenuto, alla luce del linguaggio e dei metodi della logica modale.
In secondo luogo un ragionamento di questo tipo, che va dal puramente logico al metafisico, è un'espressione di una certa forma mentis, portata a un estremo. Nella logica, se un sistema formale (un insieme di simboli e di regole per manipolarli) non contiene contraddizioni, cioè se non è possibile dedurre al suo interno sia un'affermazione sia la sua negazione, allora in qualche senso questo sistema esiste. In genere questa esistenza è del tutto astratta: è possibile costruire un “modello” matematico che realizza tutte le proprietà di quel sistema formale. Normalmente non si intende che esista qualche oggetto fisico - o metafisico - descritto dal sistema formale. Nello stesso spirito, pare che Gödel fosse interessato a studiare la non-contraddittorietà - e quindi, in teoria, la possibilità - di varie teorie scientifiche e no, compreso lo spiritismo, la sopravvivenza dell'anima e così via.
Infine, pare che Gödel si considerasse un teista e avesse effettivamente un vivo interesse personale e, potremmo dire, una grande apertura mentale nei confronti di numerose possibilità, dalla vita oltre la morte e la trasmigrazione delle anime ai fenomeni paranormali. Su questo non si può dire molto, perché Gödel tendeva a essere schivo sulle sue opinioni personali e molto raramente le esprimeva in pubblico: la maggior parte di quello che sappiamo viene da testimonianze di conoscenti o dalla corrispondenza privata, tra cui alcune lettere in cui la madre lo metteva in guardia dai possibili millantatori in questo campo.

Mi piace concludere con una frase tratta dai taccuini di Gödel: “Dedicarsi alla filosofia è in ogni caso salutare, anche quando da ciò non emerge alcun risultato positivo (ma io rimango sconcertato). Ha l'effetto che «il colore appare più brillante», cioè che la realtà appare con maggior chiarezza come tale.”

Ulteriori letture
Per approfondire sia la dimostrazione vera e propria che il posto che ha nell'opera e nella vita di Gödel nonché nella storia delle prove ontologiche, è prezioso il volumetto Kurt Gödel, La prova matematica dell'esistenza di Dio, a cura di Gabriele Lolli e Piergiorgio Odifreddi (Bollati Boringhieri), dove il testo della dimostrazione e degli altri scarsi appunti relativi tratti dai taccuini di Gödel è accompagnato da utilissimi saggi di approfondimento; è incluso un articolo del grande logico matematico e filosofo, vero “maestro laico”, che è stato il già ricordato Roberto Magari, fondatore tra l'altro della rivista neo-illuminista Dubbio.
Sulla possibile incompatibilità delle proprietà divine tra loro, cui si accennava sopra, si veda l'articolo di Theodore M. Drange, “Incompatible-Properties Arguments: A Survey” (apparso sulla rivista Philo e ora disponibile in rete all'indirizzo http://www.infidels.org/library/modern/theodore_drange/incompatible.html).
Per apprendere qualcosa sull'opera di Gödel in generale e in particolare sui suoi teoremi di incompletezza, consiglio La prova di Gödel di Ernest Nagel e James R. Newman (Bollati Boringhieri) e quella cavalcata tra logica, arte e musica che è Gödel, Escher, Bach di Douglas Hofstadter (Adelphi).

lunedì 22 marzo 2010

La piccola bottega delle curiosità matematiche del professor Stewart


Come alcuni dei miei 2,5 lettori hanno già notato, è appena uscito un nuovo libro tradotto dal sottoscritto. Si tratta di La piccola bottega delle curiosità matematiche del professor Stewart, appunto di Ian Stewart, edito da Codice.

I più attenti tra quei 2,5 - probabilmente uno solo - sanno anche già che, oltre alla traduzione vera e propria, mi sono divertito a localizzare qualche curiosità e gioco, dove era il caso. Per esempio, uno dei capitoli riguarda l'assegnazione di un numero diverso a ogni lettera dell'alfabeto in modo che, sommando i valori delle lettere, il nome di un numero dia un valore uguale al numero stesso, generalizzando quello che si fa assegnando alla A il valore 1, alla B il valore 2 e così via. Be', non mi sembrava il caso di non completare i conti, e li ho aggiunti anche per l'italiano.
Lo stesso dicasi per giochi riguardanti le lettere dello Scrabble (e qui ho fatto i conti sia con la versione italiana dello Scrabble che con lo Scarabeo, che sono simili, ma diversi: semplificando, il secondo nacque come imitazione italiana del primo, dopodiché arrivò in Italia anche la versione localizzata dello Scrabble...).
Non è prettamente matematico, ma visto che Stewart si diverte a disseminare qua e là giochi di parole, il traduttore sente il dovere e il diritto di profondere una quantità equivalente di spirito (di patata, spesso) nel testo italiano. Ma sempre in tema di trasposizioni culturali, quello che mi ha più divertito è stato italianizzare i “tautoverbi”.
Dice Stewart:
I matematici sono [...] prevenuti nei confronti della saggezza popolare, e sono soliti rivedere i proverbi per renderli più logici. O addirittura tautologici, cioè banalmente veri. Così il proverbio «Chi ben comincia è a metà dell’opera» diventa il tautoverbio «Chi ben comincia ha cominciato bene», che ha più senso ed è ineccepibile. E «Tutto è bene quel che finisce bene» è più convincente nella forma «Tutto è bene quel che è bene».
E di lì prosegue con vari esempi, tra cui alcuni lasciati come esercizio per il lettore, fino alle vette di «La gatta frettolosa fa i gattini in fretta» e «Non c'è peggior sordo di chi è privo di udito».

(Quanto al libro stesso, al di là della mia pregevole opera di traduzione, rimando a quello che ne scriveva qualche mese fa Maurizio Codogno parlando dell'edizione originale.)

martedì 9 febbraio 2010

Solo tre mesi...

Insieme alla Stampa è possibile acquistare in questo periodo (solo in nord Italia, credo) una serie di fascicoli e dvd per imparare l'inglese. Ora, non sono un esperto di metodi di insegnamento linguistico, ma questo non sembra molto efficace, se il suo stesso motto è «Solo 3 mesi per dire “I speak english”».

P.S. Il link non è alla pagina web da cui la Stampa vende i suoi fascicoli e allegati, perché è quasi inutilizzabile.

P.P.S. Non menzionerò neppure l'english con la minuscola...

martedì 12 gennaio 2010

Socchiudere

Mi è capitato di recente di pensare al verbo “socchiudere”. Come ben sanno i pignuoli, significa “chiudere quasi completamente”, ma viene spesso usato nel senso di “aprire appena”. In teoria non si può socchiudere una porta chiusa.

Lo spunto mi è venuto dal vedere che anche Guido Gozzano lo usa nel modo “sbagliato”.
La fiaba “Piumadoro e Piombofino” parla di una ragazza, appunto Piumadoro, che comincia a essere sempre più leggera per colpa di una maledizione. Non è che dimagrisca, “restava sempre la bella bimba bionda e fiorente, ma s'alleggeriva ogni giorno di più”. Per qualche tempo il nonno impedisce che voli via ancorandola a quattro grosse pietre, ma dopo un po' “nemmeno le pietre bastarono più e il nonno dovette rinchiuderla in casa” (e quindi, a quanto pare, non era solo leggera, ma aveva addirittura qualche proprietà antigravitazionale... sì, lo so, è una fiaba).
Un brutto giorno il nonno muore, Piumadoro fa per uscire, ma “socchiuse appena l'uscio di casa che il vento se la ghermì, se la portò in alto, in alto, in alto, come una bolla di sapone...”

Incuriosito, ho cercato in giro, non troppo sistematicamente, attestazioni classiche e contemporanee dei due usi di “socchiudere”.

In papà Dante non si trova mai, se non nel poemetto di dubbia paternità Il Fiore; come spiega l'Enciclopedia Dantesca:
socchiuso - Compare in Fiore CC 8 Aperto l'uscio sì ebbi trovato, / ver è ch'era socchiuso tutto ad arte, dove traduce entreclos («accostato», «non del tutto chiuso») del Roman de la Rose: «A l'uis m'en vin, senz dire mot, / Que la vieille desfermé m'ot / E le tint encore entreclos» (v. 14725). L'accorgimento della Vecchia mirerà a non far sorgere sospetti sulla visita dell'amante. --Luigi Vanossi

Da qui in poi, pare che ci siano essenzialmente quattro tipi di cose che la gente socchiude: porte, finestre, occhi e bocche. E, come vedremo, il punteggio è di 3 a 1 a favore dell'uso “sbagliato”.

Usci e persiane in genere si socchiudono nel senso di aprirli appena, per far entrare un po' di luce o più spesso per dare un'occhiatina a che cosa sta succedendo fuori.

Lo fanno, per esempio, i personaggi di Verga (“Quei poveretti aspettavano il giorno come il Messia, e andavano ad ogni momento a socchiudere la finestra per veder se spuntasse l'alba”, Malavoglia, 10), di Salgari (“Più volte, non sapendo dominare le sue inquietudini, [Yanez] scese dal letto e aprì prudentemente le finestre, più volte socchiuse la porta della stanza, temendo che fossero state appostate delle sentinelle per impedirgli la fuga”, I pirati della Malesia, II, 6), della Deledda (“Infine si fece coraggio e socchiuse la finestra: vide che la strada era deserta, la porta solitaria”, L'incendio nell'oliveto, 3). Per questi esempi e quelli che seguono mi sono state preziose la biblioteca virtuale di LiberLiber e la Biblioteca Italiana della Sapienza.

Due felici eccezioni vengono da Manzoni:
- Apri, - risponde sommessamente la nota voce. La vecchia tira il paletto; l'innominato, spingendo leggermente i battenti, fa un po' di spiraglio: ordina alla vecchia di venir fuori, fa entrar subito don Abbondio con la buona donna. Socchiude poi di nuovo l'uscio, si ferma dietro a quello, e manda la vecchia in una parte lontana del castellaccio. (Promessi sposi, 24)
e da De Sanctis:
“Dunque, – dicevo, – allons, pensiamo alla lezione”; ma la lezione non voleva andare, e stava sempre lì, tra quelle prime idee, e io ci stagnavo come in una palude. Più era lo sforzo, e più m’ingarbugliavo e non facevo via. Mi provai a socchiudere le imposte, per togliermi dagli occhi quel maledetto balconcino; ma che!
(era un balconcino a cui talvolta si affacciava una fanciulla di cui il giovane De Sanctis era invaghito e che ora era sparita da qualche giorno; La Giovinezza: frammento autobiografico, 22).

Gli occhi e la bocca, quanto al socchiuderli, tendono a seguire movimenti opposti.
Gli occhi, o le palpebre, si tende a socchiuderli veramente, per il sonno, o per vedere meglio qualcosa, o per proteggersi dal sole, o magari perché si sta per ricevere un bacio. La bocca, che al contrario degli occhi è per la maggior parte del tempo chiusa - a meno di non andare in giro a bocca spalancata come gli scemi - la si socchiude nel senso di aprirla appena, magari per dare il bacio di cui sopra, o perché si sta per dire qualcosa, e così via.

Leon Battista Alberti è uno dei primi a socchiudere gli occhi:
E molto giova a gustare i lumi socchiudere l'occhio e strignere il vedere coi peli delle palpebre, acciò che ivi i lumi si veggano abacinati e quasi come in intersegazione dipinti. (Versione in volgare del De pictura.)
Dopodiché, alla rinfusa, di nuovo Verga (“la luce che le faceva socchiudere gli occhi abbarbagliati”, novella “Il come, il quando ed il perché” da Vita dei campi), De Amicis (parlando di Parigi: “Qui par che faccia giorno daccapo. Non è un'illuminazione; è un incendio. I boulevards ardono. Tutto il pian terreno degli edifizi sembra in fuoco. Socchiudendo gli occhi, par di vedere a destra e a sinistra due file di fornaci fiammanti”, Ricordi di Parigi), Salgari (“Erano già trascorse le due ore, e cominciava a socchiudere gli occhi invitato dal leggero dondolamento dell'aerostato, quando tutto ad un tratto la navicella subì una scossa violenta”, Attraverso l'Atlantico in pallone), Tozzi (“Ella rideva agli avventori; e allora le sue gote incipriate, sode e rotonde, si gonfiavano fino a farle socchiudere gli occhi”, non a caso in Con gli occhi chiusi)...

Fra le altre cose che un tempo venivano socchiuse comme il faut ci sono i ventagli (“E con la man, che lungo il grembo cade / Lentamente il ventaglio apre e socchiude”, Parini, La notte) e le corolle (“...l’elitropio, che quasi beandosi nel sole diurno, gli tien dietro amorosamente nel suo giro, ma quando lo vede occultarsi, inchina melanconico il suo stelo e socchiude la sua corolla”, Gioberti, Del primato morale e civile degli Italiani).
Per quanto riguarda l'uso contemporaneo, i due significati continuano a convivere, con una lieve preferenza per “aprire appena”, ma spesso, non conoscendo il contesto, non è chiaro quale dei due si stia usando, e l'effetto è ambiguo.
Nel linguaggio giornalistico, di frequente qualcuno “socchiude la porta” a qualcun altro: il più delle volte significa che si sta mostrando disponibile al dialogo o a una collaborazione (“La NATO socchiude la porta ai paesi dell'Est: «Entreranno in futuro ma senza isolare la Russia»”, “Il Pd socchiude la porta al gruppo Battaglia”), ma non sempre (“Casini socchiude la porta al PdL ma spera in una mano del Cav.”). Direi che il primo uso è influenzato da quello di “schiudere”, che somiglia nella forma e - anche se nel verso opposto - nel contenuto al nostro “socchiudere”.
A giudicare da quello che suggerisce Google, oggidì si socchiudono (in versi opposti) per lo più porte figurate e occhi reali. Tra i rari casi stravaganti, trovo un fronte freddo (“Anticiclone in prima linea: per le ECMWF si socchiude l'incursione artica della prossima settimana”) e una fornitura di gas (“Guerra del gas: la Russia socchiude i rubinetti. L’Ucraina protesta”, e questa volta il socchiudere va nel verso giusto).

Trovo un po' curioso che, nonostante la quantità di usi “sbagliati”, pare che il significato di “aprire appena” non sia entrato nei dizionari, nonostante il fatto che in genere i lessicografi registrano l'uso effettivo di una parola, soprattutto se sostenuto dai testi letterari.

I miei 2,5 lettori a quest'ora avranno abbondantemente socchiuso le palpebre...

giovedì 7 gennaio 2010

Il passato del Futura


Mi stupisco che mi sia sfuggito, ma come è sfuggito a me può essere sfuggito a qualche altro socio o simpatizzante dell'Accademia: a partire dal catalogo del 2010 l'Ikea ha deciso di cambiare il carattere tipografico usato nei propri cataloghi e siti web. Il carattere usato finora era una variante - fantasiosamente chiamata Ikea sans - del classico Futura (che era amato per esempio da Kubrick), mentre ora verrà usato il Verdana, carattere della Microsoft apprezzato (dai pochi che lo apprezzano) per la sua versatilità, perché è adatto al web, perché è stato pensato con i pixel in mente.

Chi ama queste cose non ha apprezzato, arrivando a organizzare una petizione in rete per caldeggiare il ripristino del vecchio carattere. Deve essere una delle volte non frequentissime in cui il New York Times parla di caratteri tipografici. Nel blog easily amused, specializzato in questioni di design tipografico, c'è un articolo interessante, che confronta questo cambiamento con altri casi passati di riutilizzo di caratteri tipografici; qui si possono vedere bene le differenze tra il vecchio e il nuovo “look”.

La mia personale opinione, da non addetto ai lavori, è che con il nuovo carattere il catalogo o le pubblicità dell'Ikea abbiano l'aspetto di un'imitazione non troppo ben riuscita di un catalogo o pubblicità dell'Ikea...

In questa immagine di rraul si estrapola, dato il passato e il presente, come potrà essere il futuro dei cataloghi dell'Ikea: