giovedì 26 marzo 2009

Si prega di me, e devi farmi troppo felice...

Mi è capitato di comprare, in un negozio di oggetti usati, una scelta di poesie di Gozzano tradotte in inglese, The Man I Pretend to Be. Visto che spesso critico a destra e a manca, qui riconosco di ammirare sinceramente l'operato del traduttore che è riuscito a salvare qualcosa sia della capra della forma che del cavolo del contenuto. Si tratta di Michael Palma, poeta egli stesso, traduttore di Dante e Raboni, e premiato tra l'altro proprio per queste sue traduzioni gozzaniane. Ecco per esempio una strofa dalla Signorina Felicita, in originale e in traduzione:

Tu non fai versi. Tagli le camicie
per tuo padre. Hai fatta la seconda
classe, t'han detto che la Terra è tonda,
ma tu non credi... E non mediti Nietzsche...
Mi piaci. Mi faresti più felice
d'un'intellettuale gemebonda...

You don't make verse. You mend your father's britches.
You went to the local school for a year or two,
they told you that the World is round, but you
don't believe it . . . You don't read those books of Nietzsche's . . .
And more than all those intellectual leeches
you please me, and you'd make me happier too . . .

Tanto per riabbassare il livello del godimento estetico, ho gettato questi ultimi versi in pasto al traduttore di Google, che ne dà questa creativa retroversione:

Se non fate versi. È riparare il vostro padre britches.
È andato a scuola locale per un anno o due,
hanno detto che il mondo è tondo, ma è
non ci credo... Non avete letto i libri di Nietzsche...
E più di tutti coloro intellettuale sanguisughe
si prega di me, e devi farmi troppo felice...

(E anche se gli si dà una mano modificando “britches” nel più moderno “breeches”, la cosa non migliora molto: ...riparare il vostro padre, calzoncini.)

lunedì 23 marzo 2009

Pro o contro?

Non conosco molto bene il programma del Partito Democratico (se pure ne ha uno), ma avrei pensato che la povertà la volesse combattere, o contrastare, o affrontare in qualche modo. E invece:


Mi ricorda quell'ottico che pubblicizzava i propri sconti in occasione del “mese della prevenzione della vista”.

(Per chi non mi conosce: ovviamente quegli altri fanno ben di peggio, politicamente e linguisticamente. Il ministro Alfano critica la sinistra a Genova dicendo che deve “rischedulare la lista delle priorità”.)

martedì 17 marzo 2009

Comma 21

Ho visto Lezione 21, il film scritto e diretto da Alessandro Baricco. «Perché?» chiede chi mi conosce. So rispondere solo così: c'è chi ha il gusto di fermarsi a guardare gli incidenti sulle autostrade perché scene macabre gli danno un qualche frisson. A me non piace guardare automobilisti schiantati, ma occasionalmente mi concedo altri piaceri analoghi.
Vorrei dire che la mia reazione sia stata - per usare una delicata locuzione anglosassone - un continuo chiedermi «What the fuck!?», ma non sarebbe corretto. Lo stato quasi zen del WTF era continuamente interrotto da dialoghi impronunciabili, tesi insostenibili, movimenti di macchina da mal di mare, personaggi risibili e argomentazioni la cui logica farebbe rabbrividire anche quelli che all'ufficio postale hanno difficoltà a capire che chi ha un numero più basso è arrivato prima.
Il titolo del film si riferisce alla memorabile lezione 21 tenuta dal prof. Mondrian Kilroy nell'ambito di un corso sulle opere sopravvalutate (e qui è innegabile che A.B. sia un esperto): il Partenone, i quadri di Caravaggio, Emily Dickinson, l'Opera da tre soldi, l'Ulisse, Orson Welles ma, soprattutto, l'oggetto di quella lezione, la nona sinfonia di Beethoven e in particolare il suo ultimo movimento.
La lezione ci viene raccontata dai suoi affezionati studenti e apparentemente si svolse così: un uomo perso nella neve col suo violino riesce a raggiungere il villaggio sua meta (don't ask). Qui gli si presentano gli abitanti: il maestro del ghiaccio, il maestro del fuoco, i gemelli a uno dei quali manca il braccio destro e all'altro il sinistro, il (forse) prete che si diletta a costruire velieri in mezzo ai monti, più altri il cui ruolo è meno chiaro.
Il tutto, ovviamente, è una cornice onirica e poetica in cui esporre l'opinione di A.B. sull'ultimo movimento della Nona che - per quel che vale - si poteva esporre in un paragrafo scarno: quando ha composto l'Inno alla gioia Beethoven era vecchio, i vecchi perdono il senso del bello, ergo l'Inno alla gioia, pur avendo qualche merito, è privo di bellezza. Apparentemente una delle argomentazioni più solide risiederebbe nella testimonianza di un oscuro viaggiatore dell'epoca circa l'accoglienza non entusiastica del pubblico della prima esecuzione.
I miei 2,5 lettori apprezzeranno la mia caparbietà nel rimanere vigile fino a questa rivelazione e la mia lucidità nel darle una forma quasi coerente, nonostante lo stato quasi zen del WTF, i dialoghi impronunciabili, etc. etc.
Non mancano i vari assi nella manica del Baricco narratore, come il gusto per un linguaggio “parlato” («senza scherzi! quella era dinamite» o «quella roba dei timpani li fece andare fuori di testa...») o le situazioni e i personaggi “unici”: la sera in cui..., il tragitto di 54 passi che..., la lettera nella quale Beethoven espresse... Ma soprattutto il suo vero marchio di fabbrica come autore e come divulgatore, il Farsi-bello-con-le-penne-del-pavoneTM (mostrare un paesaggio innevato accompagnandolo con un quartetto di Beethoven credo che non sia consentito più neppure a chi gira pubblicità di profumi).
E, dulcis in fundo, non aiuta neppure il fatto che la sceneggiatura sia stata scritta in italiano, tradotta in inglese, recitata in inglese e doppiata in italiano.
Buona visione.