Ho visto Lezione 21, il film scritto e diretto da Alessandro Baricco. «Perché?» chiede chi mi conosce. So rispondere solo così: c'è chi ha il gusto di fermarsi a guardare gli incidenti sulle autostrade perché scene macabre gli danno un qualche frisson. A me non piace guardare automobilisti schiantati, ma occasionalmente mi concedo altri piaceri analoghi.
Vorrei dire che la mia reazione sia stata - per usare una delicata locuzione anglosassone - un continuo chiedermi «What the fuck!?», ma non sarebbe corretto. Lo stato quasi zen del WTF era continuamente interrotto da dialoghi impronunciabili, tesi insostenibili, movimenti di macchina da mal di mare, personaggi risibili e argomentazioni la cui logica farebbe rabbrividire anche quelli che all'ufficio postale hanno difficoltà a capire che chi ha un numero più basso è arrivato prima.
Il titolo del film si riferisce alla memorabile lezione 21 tenuta dal prof. Mondrian Kilroy nell'ambito di un corso sulle opere sopravvalutate (e qui è innegabile che A.B. sia un esperto): il Partenone, i quadri di Caravaggio, Emily Dickinson, l'Opera da tre soldi, l'Ulisse, Orson Welles ma, soprattutto, l'oggetto di quella lezione, la nona sinfonia di Beethoven e in particolare il suo ultimo movimento.
La lezione ci viene raccontata dai suoi affezionati studenti e apparentemente si svolse così: un uomo perso nella neve col suo violino riesce a raggiungere il villaggio sua meta (don't ask). Qui gli si presentano gli abitanti: il maestro del ghiaccio, il maestro del fuoco, i gemelli a uno dei quali manca il braccio destro e all'altro il sinistro, il (forse) prete che si diletta a costruire velieri in mezzo ai monti, più altri il cui ruolo è meno chiaro.
Il tutto, ovviamente, è una cornice onirica e poetica in cui esporre l'opinione di A.B. sull'ultimo movimento della Nona che - per quel che vale - si poteva esporre in un paragrafo scarno: quando ha composto l'Inno alla gioia Beethoven era vecchio, i vecchi perdono il senso del bello, ergo l'Inno alla gioia, pur avendo qualche merito, è privo di bellezza. Apparentemente una delle argomentazioni più solide risiederebbe nella testimonianza di un oscuro viaggiatore dell'epoca circa l'accoglienza non entusiastica del pubblico della prima esecuzione.
I miei 2,5 lettori apprezzeranno la mia caparbietà nel rimanere vigile fino a questa rivelazione e la mia lucidità nel darle una forma quasi coerente, nonostante lo stato quasi zen del WTF, i dialoghi impronunciabili, etc. etc.
Non mancano i vari assi nella manica del Baricco narratore, come il gusto per un linguaggio “parlato” («senza scherzi! quella era dinamite» o «quella roba dei timpani li fece andare fuori di testa...») o le situazioni e i personaggi “unici”: la sera in cui..., il tragitto di 54 passi che..., la lettera nella quale Beethoven espresse... Ma soprattutto il suo vero marchio di fabbrica come autore e come divulgatore, il Farsi-bello-con-le-penne-del-pavoneTM (mostrare un paesaggio innevato accompagnandolo con un quartetto di Beethoven credo che non sia consentito più neppure a chi gira pubblicità di profumi).
E, dulcis in fundo, non aiuta neppure il fatto che la sceneggiatura sia stata scritta in italiano, tradotta in inglese, recitata in inglese e doppiata in italiano.
Buona visione.
Vorrei dire che la mia reazione sia stata - per usare una delicata locuzione anglosassone - un continuo chiedermi «What the fuck!?», ma non sarebbe corretto. Lo stato quasi zen del WTF era continuamente interrotto da dialoghi impronunciabili, tesi insostenibili, movimenti di macchina da mal di mare, personaggi risibili e argomentazioni la cui logica farebbe rabbrividire anche quelli che all'ufficio postale hanno difficoltà a capire che chi ha un numero più basso è arrivato prima.
Il titolo del film si riferisce alla memorabile lezione 21 tenuta dal prof. Mondrian Kilroy nell'ambito di un corso sulle opere sopravvalutate (e qui è innegabile che A.B. sia un esperto): il Partenone, i quadri di Caravaggio, Emily Dickinson, l'Opera da tre soldi, l'Ulisse, Orson Welles ma, soprattutto, l'oggetto di quella lezione, la nona sinfonia di Beethoven e in particolare il suo ultimo movimento.
La lezione ci viene raccontata dai suoi affezionati studenti e apparentemente si svolse così: un uomo perso nella neve col suo violino riesce a raggiungere il villaggio sua meta (don't ask). Qui gli si presentano gli abitanti: il maestro del ghiaccio, il maestro del fuoco, i gemelli a uno dei quali manca il braccio destro e all'altro il sinistro, il (forse) prete che si diletta a costruire velieri in mezzo ai monti, più altri il cui ruolo è meno chiaro.
Il tutto, ovviamente, è una cornice onirica e poetica in cui esporre l'opinione di A.B. sull'ultimo movimento della Nona che - per quel che vale - si poteva esporre in un paragrafo scarno: quando ha composto l'Inno alla gioia Beethoven era vecchio, i vecchi perdono il senso del bello, ergo l'Inno alla gioia, pur avendo qualche merito, è privo di bellezza. Apparentemente una delle argomentazioni più solide risiederebbe nella testimonianza di un oscuro viaggiatore dell'epoca circa l'accoglienza non entusiastica del pubblico della prima esecuzione.
I miei 2,5 lettori apprezzeranno la mia caparbietà nel rimanere vigile fino a questa rivelazione e la mia lucidità nel darle una forma quasi coerente, nonostante lo stato quasi zen del WTF, i dialoghi impronunciabili, etc. etc.
Non mancano i vari assi nella manica del Baricco narratore, come il gusto per un linguaggio “parlato” («senza scherzi! quella era dinamite» o «quella roba dei timpani li fece andare fuori di testa...») o le situazioni e i personaggi “unici”: la sera in cui..., il tragitto di 54 passi che..., la lettera nella quale Beethoven espresse... Ma soprattutto il suo vero marchio di fabbrica come autore e come divulgatore, il Farsi-bello-con-le-penne-del-pavoneTM (mostrare un paesaggio innevato accompagnandolo con un quartetto di Beethoven credo che non sia consentito più neppure a chi gira pubblicità di profumi).
E, dulcis in fundo, non aiuta neppure il fatto che la sceneggiatura sia stata scritta in italiano, tradotta in inglese, recitata in inglese e doppiata in italiano.
Buona visione.
In effetti le "bariccate" meriterebbero forse un blog a sé da parte dei pignuoli... ma forse si può riassumere tutto in una domanda sola: la vecchia, classica "c'è o ci fa?"
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