Non mi capacito del fatto che, in nome di condivisibili campagne di uguaglianza dei diritti dei vari sessi, si prendano cantonate immani in campo linguistico. Spesso si parla dell'uso della parola “uomo” in termini insensati, supponendo che il suo vero significato sia “maschio”, come quando si chiede di dire “caccia all'individuo” anziché “caccia all'uomo” o «invece di “L'uomo della preistoria...” si dica “L'uomo e la donna della preistoria...”» (qui).
Da che esiste la lingua italiana, la parola “uomo”, e prima di essa “homo” in latino, significa “essere umano”, “individuo”, “persona”. Quando per esempio Dante vuole parlare specificamente di esseri umani piccoli, femmine e maschi, parla «d'infanti, di femmine e di viri», non “e di uomini”, mentre nella stragrande maggioranza dei casi usa “uomo” (o “omo”) nel «valore più comune e generico di “animale ragionevole e parlante”» (Enciclopedia Dantesca, corsivo mio).
Quindi non è che usando “uomo” per parlare di esseri umani di entrambi i sessi si cerchi di maschilizzare le donne, di imporre uno standard maschile a tutti. Al contrario: nel corso della storia dell'italiano moderno c'è stata una deriva verso un uso specificamente maschile della parola “uomo”, e la cosa interessante, semmai, potrebbe consistere nel riappropriare la parola “uomo” al suo uso universale originario.
Sospetto che c'entri un obliquo influsso di analoghe battaglie anglofone (su cui, pure, si può discutere), in cui in effetti man ha un significato un po' più specificamente maschile e più netta è la contrapposizione con la woman, che è etimologicamente la wīfmann, la “moglie dell'uomo” (e allora lì la vera lotta al sessismo imporrebbe di non usare più “woman” per dire “donna”...).