Ogni volta che uso il sostantivo “controllo” o il verbo “controllare” ho delle remore.
Non c'è dubbio che ormai queste parole abbiano acquisito in italiano un significato attivo, relativo alla capacità di “dirigere, regolare, determinare o impedire decisioni e comportamenti” (Treccani) detto di cose, persone, luoghi, attività, sé stessi. La mia remora viene dal fatto che è un'accezione relativamente recente, derivata dall'analoga inglese: “the power to influence or direct people's behaviour or the course of events” (Oxford Dictionary of English).
Ma ancora 70 anni fa (e fino a quando? io ho sott'occhio un dizionario del 1948) “controllo” significava soltanto:
Riscontro. Verifica. Esame sull'operato altrui. Riscontro di entrate e di spese. (Zingarelli, 7ª edizione, 1948)
E l'analogo per “controllare”. Il controllore controllava i biglietti, per esempio, ma non sé stesso nel bere. Se uno controllava la palla, era per vedere se era bucata, non per evitare che finisse fuori campo. Se uno controllava un settore dell'industria, apprendeva se vi avevano luogo degli illeciti, non spazzava via la concorrenza.
Ora si usa in entrambi i modi, e non avrebbe senso cercare di andare contro corrente. Ma per lo meno cerco di controllare che le frasi che scrivo non siano fraintendibili per via dell'ambiguità.