lunedì 3 giugno 2013

Un mondo di errori

Paolo Gangemi, matematico, giornalista scientifico, accademico de’ Pignuoli e amico, nonché curatore del blog Casi paologici dedicato ai paradossi e autore tra l'altro di Insalate di matematica 2 e del Piccolo libro delle curiosità sul mondo, ha gentilmente accolto il mio invito a scrivere un guest post su quelle che erano cominciate come considerazioni in privato.

La geografia, quanto e più della matematica, è quella cosa che in Italia molti (e nella mia esperienza soprattutto molte, non so perché) si piccano di non conoscere, quasi con una punta di orgoglio.

Lo si vede distintamente nell’opera di giornalisti e traduttori, due professioni per esercitare le quali c’è chi pensa che non serva la cultura (tanto meno quella geografica). L’accostamento non è casuale: molti giornalisti, soprattutto in ambito scientifico, si limitano a tradurre alla meno peggio gli articoli dall’inglese, anziché scriverli.
Ed è qui che viene il bello (si fa per dire).

L’errore più classico è l’uso della translitterazione inglese anziché quella italiana o (quando c’è) quella standard: Azerbaijan, Yalta, Yugoslavia, Kamchatka, eccetera. Interessante il caso di Černobyl’: nella translitterazione standard si scrive Čornobyl in base alla grafia ucraina e Černobyl’ in base a quella russa (più diffusa, perché era la lingua usata internazionalmente dall’Unione Sovietica all’epoca del tristemente famoso incidente nucleare). In alternativa, in Italia potrebbe essere accettabile scrivere Cernobyl, ma di solito si usa la versione inglese Chernobyl: perché non adottare allora quella francese Tchernobyl o quella tedesca Tschernobyl (usate coerentemente nei rispettivi Paesi)?

Altrettanto diffusa è l’ignoranza dei corrispettivi italiani di toponimi anglofoni: Burma, isole Fiji, Rwanda, isole Solomon. Il più brutto, per il mio gusto personale, viene invece dal francese: Djibouti.
C’è poi un caso più pignuolo: l’Artico. Non si legge mai Artide (e anche Antartide sta cedendo ad Antartico). Ora, l’Artico è un mare (o un oceano) e quindi è corretto chiamarlo con l’aggettivo sostantivato (come il Pacifico, il Mediterraneo, ecc). Solo che spesso si dice Artico per intendere la Groenlandia o altre terre ben emerse.
E forse è un calco dall’inglese l’uso sempre più frequente dell’espressione “il Sudcorea”: una tendenza ormai entrata nell’italiano in casi come Sudafrica o Nordamerica. A proposito di Nordamerica: un classico errore di chi traduce dallo spagnolo è scrivere sbadatamente “nordamericano”, senza pensare che “norteamericano” è usato allo stesso modo del nostro “americano” per intendere “statunitense”.

Una variante è lasciare nella lingua originale i toponimi che hanno una traduzione in italiano ma non in inglese: Mainz, Szeged, Sulawesi, eccetera. Conosco persone che sono tornate dalla pittoresca città di Regensburg senza sapere di essere stati a Ratisbona.
Un caso particolare è Dubrovnik: l’italiano “Ragusa” sta sparendo dall’uso comune sia per l’ignoranza delle guide (e quindi dei turisti) sia per il possibile equivoco con l’omonima città siciliana. Visto che la lingua si modifica secondo la parlata, dire “Dubrovnik” mi sembra ormai quasi accettabile (lo sarebbe ancora di più – a essere pignuoli – se lo si pronunciasse alla croata, cioè con l’accento sulla “u”).
È invece del tutto ingiustificabile usare il termine inglese quando è diverso sia dalla versione locale sia da quella italiana. Un caso tipico è Guatemala City, particolarmente irritante per un ispanofono.
Anche qui non sono solo i turisti a sbagliare: un importante documento ufficiale di una grandissima azienda italiana con interessi in molti Paesi del mondo, parlando del Parco Nazionale degli Alti Tatra, in Slovacchia, lo chiama “Parco nazionale High Tatras”.

Spesso poi l’errore riguarda l’uso delle preposizioni e degli articoli: capita quando i giornalisti/traduttori non si chiedono se il toponimo si riferisce a una città, a uno Stato o ad altre cose ancora. Capita di leggere “è andato a Pernambuco”, “vive a Kerala” e simili.
La confusione aumenta quando Stato e città hanno lo stesso nome (New York, Rio de Janeiro, eccetera). E fare chiarezza su questo punto non sempre serve: il Venerdì di Repubblica parlava recentemente di un film girato “a New York Upstate”. Chissà se il giornalista si è chiesto cosa volesse dire.

16 commenti:

  1. ma se invece accettassimo che l'idea di un nome unico per le cose è un'astrazione. E "tutto fa brodo". Basta che un nome sia abbastanza simile a altri diciture dello stesso oggetto perchè la rete neurale lo riconosca e, insomma... va bene così?

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    1. A Pietro, sei venuto nell'Accademia de' Pignuoli a provocare? Poi vai a gridare “Forza Roma” nel circolo dei laziali? :)
      Certo, molte volte funziona come dici tu, e in qualche modo ci si capisce (ma spesso e volentieri ci si fraintende pure), ma mi dici un motivo al mondo perché un italiano debba scrivere in inglese il nome di una città ucraina, per dire?

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  2. Io ce li porterebbe, questi, negli High Tatras, e poi ce li lascerebbe, senza niente da mangiare né da bere.

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    1. Poveri hightatrasesi, che magari si muovono a compassione e se ne accollano il mantenimento...

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  3. New York upstate magari e' stato preso per un quartiere di NYC. Purtroppo si leggono di quegli strafalcioni...

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  4. Finalmente qualcuno che sa che il Pernambuco è uno stato! Così come la Bahia. Ma gli italiani dicono "sono stato a Bahia" quando in realtà hanno visitato la sua capitale, Salvador. Una sola osservazione: Rwanda si scrive così anche in kinyarwanda (la lingua ufficiale del paese, insieme a francese e inglese). Non tutto ciò che può sembrare un calco dall'inglese lo è in realtà: l'organizzazione di cui sono socia esiste dai primi anni 70 dello scorso secolo e fino ai primi anni 90 si è chiamata "Amici del Rwanda" con la W, proprio per scelta. La conoscenza diretta del paese ci porta a a scriverlo come i nativi, e qualche volta persino a pronunciarlo come loro, 'Rguanda...

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    1. Grazie delle delucidazioni, Sandra! Tuttavia anche usare la lingua del luogo non è un criterio a prova di bomba, o almeno non lo sarà finché non sentirò dire comunemente che “I ragazzi della via Pál” si svolge in Magyarország...

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  5. (Ho incasinato tutto, prima, ma pace. Avevo scritto questo commento, poi cancellato, ma lo ripubblico.)

    D'accordo con (quasi) tutto. Per esempio, mi pare ci sia una certa differenza fra il caso di Magonza o Ratisbona (toponimi peraltro legati soprattutto a eventi o momenti storici ormai "superati") e quello degli High Tatras. Se poi qualcuno obietta "Allora perché non dici London?", rispondo che l'uso corrente non va solo schifato, ma anche considerato, perché la correttezza che sfora nell'ipercorrettismo genera mostri ridicoli o presuntuosi (o entrambe le cose). E anche il caso Sudafrica, come dire, non è esattamente lo stesso di Nordamerica...

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  6. (E Malcelati è Anna Rusconi. Ecco.)

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  7. Forse il caso piu' odioso e' la capitale del Kuwait. A scuola (ehm... ok, qualche anno fa) studiai che la capitale del Kuwait era Medinat al Kuwait (anche solo Al Kuwait). Poi e' arrivata la guerra in Kuwait e la capitale e' "diventata" Kuwait city. Mi chiedo cosa ne penserebbe un kuwaitiano in proposito.
    A proposito di Sudafrica invece, non mi sono mai spiegato perche' in inglese si dica Kuwait city, Mexico city addirittura Vatican city ma Cape town.

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  8. Ieri sera, dopo aver letto il tuo post, in un romanzo che sto leggendo ho appunto trovato una perfetta combinazione di due degli esempi che fai: "suo padre aveva combattuto a Burma".

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  9. Ottimo articolo. Io sono dell'idea che (e molti letterati lo confermano) si sta andando ad un assottigliamento delle parole, e i vocabolari stanno diventando sempre più piccoli. Ciò comporta ad un'elastica e un lessico sempre più piccolo, con minor possibilità di comunicazione. Insomma, si sta distruggendo la comunicazione in questo momento, grazie anche alle abbreviazioni date dai cellulari e la tecnologia in generale.

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  10. @Sandra: grazie per i complimenti ma dissento sul Ruanda. Come dice Daniele (e come sostengo con altri esempi nel mio post) l'uso del toponimo locale viene spontaneo a chi vive o ha vissuto sul posto, ma non ha molto senso quando un italiano si rivolge ad altri italiani.
    (Per non parlare del fatto che i ruandesi hanno conosciuto l'alfabeto latino dopo essere entrati in contatto con gli europei, sopratutto anglofoni e francofoni).
    @dmmauro: ottimo esempio Kuwait City!
    Per Capetown: gli inglesi usano spesso "city" traducendo i toponimi stranieri che comprendono la parola "città" (è appunto il caso di Mexico City, Vatican City, ecc.).
    Quando in passato si riferivano a piccoli insediamenti nelle colonie li chiamavano "town", perché appunto non erano vere e proprie città (per esempio: Georgetown, capitale della Guyana, Charlottetown, capoluogo della provincia canadese dell'Isola Principe Edoardo, ecc.).
    Se anche l'insediamento si ingrandisce fino a diventare una metropoli, il nome resta. Così come per esempio la città tedesca di Düsseldorf mantiene il nome originale anche se "Dorf" significa "villaggio", "paesino".

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  11. Addendum
    A volte la questione è veramente sottile. Anche ai traduttori più attenti (anzi, specialmente a loro) capita di essere in dubbio quando si trovano di fronte a toponimi come North Carolina: lasciare l’originale inglese o tradurlo “Carolina del Nord”, considerandolo entrato nell’italiano?
    Per dare un’idea del dilemma: l’Enciclopedia Zanichelli riporta “Carolina del Nord”, mentre lascia “North Carolina” il Calendario Atlante De Agostini (che in situazioni analoghe cita i toponimi originali accompagnati dalla traduzione italiana: per esempio, fra gli Stati dell’India, riporta “Bengala Occidentale = West Bengal”).
    Decisamente meno attento il traduttore italiano – o un suo sciagurato revisore – di un’edizione a buon mercato del Grande Gatsby: in un caso del genere, non sapendo come comportarsi, ha optato per l’unica versione senza senso, cioè quella ibrida: Nuovo Mexico.

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  12. ringrazio Daniele per la serendipità: erano settimane che cercavo di rammentare il nome dell'autore di quel curioso libro di geografia (ma non solo), di cui però non ricordavo né titolo esatto né casa editrice...
    Ti devo una birra (o altro di equivalente, se non gradisci quella bevanda)!

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    1. Gradisco eccome, ma non ho fatto niente per meritarla se non essere a mia volta un assiduo frequentatore di Serendip!

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