Mi sono accorto solo relativamente di recente di un uso curioso e discutibile: “tale” come “sinonimo” di questo. I miei 2,5 lettori non hanno bisogno che ricordi loro che “questo” si riferisce a una cosa di cui si sta parlando, mentre “tale” si riferisce più in generale a una cosa che ha caratteristiche come quelle della cosa di cui si sta parlando. Se, all'interno di un discorso più ampio, dico “tali libri si trovano in tutte le edicole” non mi sto riferendo necessariamente ai libri di cui si è parlato finora, ma anche a libri analoghi, simili, con certe qualità in comune. E invece vedo che “tale” viene usato con una certa frequenza – e anche da chi dovrebbe stare attento a queste sfumature, come i revisori di certe case editrici – come se fosse intercambiabile con “questo”, e a volte addirittura come se ne fosse un sinonimo più ricercato.
La parola “meme” sta conoscendo un grande successo, essa stessa un vero meme, ma patisce anche due torti, uno delle quali a livello internazionale e una specificamente in Italia, uno semantico e uno formale. Ricordo rapidamente che un “meme”, concetto creato da Richard Dawkins, è una qualsiasi specifica idea, vista come elemento culturale che si può trasmettere da una persona all'altra: una parola, un modo di dire, un modo di fare, un'immagine, un concetto. Il nome parafrasa volutamente il “gene”, di cui è per così dire la controparte culturale: entrambi si replicano, si trasmettono, si modificano, per quanto su supporti diversi e in modi fisici diversi, così come di entrambi sono state studiate le fasi dell'esistenza, quasi come esseri viventi. Ora, in tempi recenti, molti usano la parola “meme” esclusivamente per riferirsi a quelle immagini buffe che girano e sono molto apprezzate in rete, spesso ottenute sovrapponendo una battuta a un fotogramma di un film o a una foto di un gatto. Ho presente gente che pensa che sia questo il senso di meme (e, se lo diventerà definitivamente, il senso originario del meme “meme” sarà scomparso in un modo che al confronto quello dei dinosauri è da poema cavalleresco). Il problema formale è che qualcuno pronuncia la parola alla (pseudo)inglese (“miim” o simili), ma soprattutto che molti la usano come parola invariante (“i meme”), buttando ulteriormente via il parallelo anche lessicale con “gene”, di cui fino a prova contraria il plurale è ancora “geni”.