mercoledì 4 febbraio 2015

Note alle note a piede d'anfiteatro

Il culto della parola isolata è il trabocchetto più volgare, ma ad un tempo più sottile che si apre dinanzi al traduttore: perché mai, se tutti lo conoscono e stanno sull’avviso, è così facile cascarci?
Benvenuto Terracini


M'è capitato, arrivandoci per caso mentre cercavo quasi tutt'altro, di leggere questo articolo molto interessante: «Note a piede di anfiteatro»: la traduzione dei drammi antichi in una esperienza di laboratorio di Federico Condello e Bruna Pieri (apparso in Dionysus ex machina, IV (2013), 553-603).

Potrebbe apparire piuttosto specialistico, perché parla di un'esperienza didattica di traduzione di testi teatrali classici dal greco e dal latino, con esempi in particolare da Eschilo e Seneca. In prima approssimazione tocca problemi specifici di questo tipo di testi, e quindi non concerne chi legge o traduce testi moderni e in prosa, no?

Niente affatto: la resa in italiano delle tragedie greche e latine mette sotto il microscopio, esaspera in modo fertile, varie questioni che riguardano in realtà qualunque lettura e qualunque traduzione.

Intanto, il “traduttese” alberga ovunque, e se non è quello del doppiaggio affrettato di film americani è quello delle versioni da liceo classico; se dal primo ci vengono i classici automatismi di sicuro, fottuto, dannazione, dalle seconde vengono – anche se per meccanismi diversi – i giacigli, le scolte, gli illustri, e altri traduttismi assortiti

sia di ordine grammaticale (gli “o” dei vocativi, i “fra” dei partitivi, i gerundi delle subordinate implicite, etc.), sia di ordine lessicale (le varie “tracotanze” e “virtù”, le “sciagure” e le “trepidazioni”, etc.); e non c’è da stupirsi troppo se, per il nudo e potente esordio eschileo ..., compare addirittura un “vogliano gli dèi etc.”, cioè l’abituale, abitudinario equivalente scolastico della desiderativa; o se ... le opes di Medea non sono il “potere” ma i canonici “mezzi”; e, ancora, se la presenza del gerundivo nell’avvertimento della Nutrice a Medea (rex est timendus) scatena rese, per così dire, pavloviane come “temere il re è nostro dovere” o “c’è un re da temere” (perché – fra l’altro – in “traduttese” si “teme”, non si “ha paura”).

Ma il traduttese, vecchio e nuovo, è solo uno dei motivi di interesse dell'articolo. Tradurre il teatro antico mette a fuoco almeno altre due questioni con cui in realtà si confronta quotidianamente qualsiasi traduttore.

Uno è il problema dei realia, dei riferimenti culturali ovvî per il lettore (o spettatore) della lingua e dell'epoca di partenza, ma forse misteriosi per chi legge qui e ora. Al contemporaneo di Sofocle era per esempio chiaro che, in certi contesti, se una persona era seduta lo era in segno di supplica. Che fare oggi? Aggiungere appunto “in segno di supplica”? Far inginocchiare quel personaggio anziché sedere? Confidare nella cultura o nell'intuito del lettore/spettatore? E chi o cosa saranno mai l'Istro e il Fasi che, neppure loro, potranno lavare e purgare la reggia di Edipo?
Spero sia chiaro che questa distanza che ci separa da Sofocle o Eschilo non è poi diversa (non dirò neppure “maggiore”) da quella che ci separa dai pescatori della Lousiana o dall'Africa post-coloniale contemporanea. Chi traduce per il teatro deve risolvere tutto, sempre, all'interno del testo – non si danno «note a piede d'anfiteatro» (a questo si riferisce la citazione da Sanguineti ripresa nel titolo) – e anche in questo ha forse da insegnare a chi ha il relativo agio di tradurre per la pagina scritta, che punterebbe però comunque a evitare anche le note a piè di pagina. 

Proprio la destinazione teatrale è alla base dell'altra questione molto istruttiva anche per chi non ha come destinazione il palcoscenico: la “dicibilità”. È problematica e contestata fin dal nome, ma è innegabile: il testo deve “suonare bene”; o magari suonare male, scabro, straniante ma a ragion ben veduta.
Questo naturalmente significa, ma solo al livello più elementare, evitare ovvî e buffi accostamenti: «“Ti ritiri?”, “più pio”, “telai idei”, “flutti di mare” (“arselle, garusoli, vongole e simili ghiottonerie”?), etc., secondo la spassosa esemplificazione di Albini». Ma più in generale, salvare o ricreare la musica del testo, il “suono” dei vari personaggi (a ognuno il suo, ma in modo che interagiscano veramente e non che ognuno abbia le proprie belle battute a sé stanti) e così via. E non sono questi problemi anche di chi traduce narrativa o saggistica (per non parlare della poesia)? Non sarà un caso se molti traduttori rileggono, o si fanno rileggere, ad alta voce il proprio testo.

Ma nell'articolo c'è molto altro: ho appena sfiorato la superficie: soprattutto considerazioni utili per chiunque (come rendere i saluti? riportarli su una scala “ciao/salve/buongiorno”? come parlare di “amici” o di “cattivi”?), e altre più specifiche relative alle lingue classiche. Se si ha un'infarinatura anche solo di una delle due, vale la pena almeno di scorrerle, per cogliere perle come per esempio le difficoltà presentate da un frammento apparentemente semplice (è la nutrice che sta parlando alla Medea senecana) quale «coniugis nulla est fides». Che cos'è quella fides ormai assente in Giasone? La risposta “da vocabolario”, parlando di un rapporto tra persone, è “lealtà” (o “fedeltà”, o “promessa” o simili), ma bisogna cogliere bene quello di cui si sta parlando:
Qui molte versioni del laboratorio ... hanno involontariamente caricato la resa di valenze “scandalistiche” («tuo marito ti ha tradita», «ti è infedele ormai tuo marito») che nulla hanno a vedere col significato chiave di questo termine, riferito a un rapporto di fiducia/fedeltà che non si esplica certo solo a livello privato. Qui la nutrice non sta dicendo a Medea quanto ella sa già, cioè che Giasone è promesso a un’altra, ma che l’eroe, a differenza dei tempi dell’avventurosa fuga dalla Colchide ..., non è più dalla sua parte. Questo forse è uno dei casi in cui la traduzione per la messinscena – che ha e deve avere mani più libere rispetto alle costrizioni poste da altre destinazioni – avrà l’opportunità di valorizzare il significato di fides con una resa – ancora una volta – esegetica (e.g. «in tuo marito non puoi trovare appoggio»).
Buona lettura!

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