Mi fa piacere rendere partecipi i miei 2,5 lettori del fatto che è appena uscito Benvenuti a Chernobyl. E altre avventure nei luoghi più inquinati del mondo, la mia traduzione di Visit Sunny Chernobyl: And Other Adventures in the World's Most Polluted Places di Andrew Blackwell. Mi fa piacere perché è un libro che ho letto e tradotto con piacere (e di cui ho regalato con piacere ad alcune persone amiche le copie che mi spettavano).
Come suggerisce il sottotitolo, è un diario di viaggio molto personale a Černobyl’, in una miniera canadese di sabbie bituminose, nella “città più inquinata del mondo” (ma in realtà no) in Cina, nella chiazza di immondizia del Pacifico e in altri ameni luoghi del genere, in cui l'orrore per la devastazione ambientale e umana convive in Blackwell con una sorta di fascino per il fatto stesso che sia possibile modificare l'ambiente su scala così ampia. Un esempio per tutti: dove vengono lavorate le sabbie bituminose per trarne – in modo a sua volta molto inquinante – qualcosa di utilizzabile a mo' di petrolio,
... c’era l’area di stoccaggio dello zolfo, anche se chiamarlo «area di stoccaggio dello zolfo» è come chiamare le piramidi «area di stoccaggio della pietra».
Un sottoprodotto del processo industriale della Syncrude è una quantità monumentale di zolfo, di cui non si sa che fare né a chi venderlo. Così viene messo da parte, in grosse lastre gialle, un livello ingombrante sull’altro, fino a erigere, attualmente, un trio di enormi ziggurat tronche alte quindici o venti metri e larghe qualcosa come quattrocento metri. Come tutto quello che c’è qui in giro, sono probabilmente tra le strutture artificiali più grandi della storia umana, ma non ne avevo mai sentito parlare. Una piramide di zolfo non fa notizia, mi sa. ...
Un giorno, però, la Syncrude o i suoi successori vedranno in questi oggetti enormi – giganteschi, monumentali, immani, apocalittici – l’opportunità che veramente rappresentano. I turisti del futuro saliranno fino in cima ai loro gradoni, soggiorneranno in alberghi di zolfo scavati al loro interno, sorseggeranno cocktail gialli e assisteranno agli incontri di tennis del Syncrude Open, in cui si useranno palle azzurre perché siano visibili sui campi gialli. Migliaia di anni dopo, gli esploratori che si apriranno la strada tra le giungle della Cameximeriga del Nord ci si imbatteranno e saranno abbagliati dalla semplicità dell’architettura dei nostri templi, al contempo rozzi e grandiosi, e faranno congetture sui motivi che ci spinsero a adorare lo zolfo al di sopra di ogni altro elemento e si renderanno conto che i faraoni erano dei mentecatti.
E così via. Potete leggere qualche altro estratto sul Post (con menzione del nome del traduttore) e su Internazionale (senza).
(Per i più attenti e pignuoli: com'è, anche alla luce del recente guest post di Paolo Gangemi, che nel titolo e anche nel testo, abbondano le menzioni di “Chernobyl” all'inglese, anziché di un più corretto “Černobyl’”? Scelta dell'editore. Ma quasi tutti gli altri nomi russi e ucraini sono traslitterati come norma internazionale comanda.)
Paolo Gangemi, matematico, giornalista scientifico, accademico de’ Pignuoli e amico, nonché curatore del blog Casi paologici dedicato ai paradossi e autore tra l'altro di Insalate di matematica 2
e del Piccolo libro delle curiosità sul mondo, ha gentilmente accolto il mio invito a scrivere un guest post su quelle che erano cominciate come considerazioni in privato.
La geografia, quanto e più della matematica, è quella cosa che in Italia molti (e nella mia esperienza soprattutto molte, non so perché) si piccano di non conoscere, quasi con una punta di orgoglio.
Lo si vede distintamente nell’opera di giornalisti e traduttori, due professioni per esercitare le quali c’è chi pensa che non serva la cultura (tanto meno quella geografica). L’accostamento non è casuale: molti giornalisti, soprattutto in ambito scientifico, si limitano a tradurre alla meno peggio gli articoli dall’inglese, anziché scriverli.
Ed è qui che viene il bello (si fa per dire).
L’errore più classico è l’uso della translitterazione inglese anziché quella italiana o (quando c’è) quella standard: Azerbaijan, Yalta, Yugoslavia, Kamchatka, eccetera. Interessante il caso di Černobyl’: nella translitterazione standard si scrive Čornobyl in base alla grafia ucraina e Černobyl’ in base a quella russa (più diffusa, perché era la lingua usata internazionalmente dall’Unione Sovietica all’epoca del tristemente famoso incidente nucleare). In alternativa, in Italia potrebbe essere accettabile scrivere Cernobyl, ma di solito si usa la versione inglese Chernobyl: perché non adottare allora quella francese Tchernobyl o quella tedesca Tschernobyl (usate coerentemente nei rispettivi Paesi)?
Altrettanto diffusa è l’ignoranza dei corrispettivi italiani di toponimi anglofoni: Burma, isole Fiji, Rwanda, isole Solomon. Il più brutto, per il mio gusto personale, viene invece dal francese: Djibouti.
C’è poi un caso più pignuolo: l’Artico. Non si legge mai Artide (e anche Antartide sta cedendo ad Antartico). Ora, l’Artico è un mare (o un oceano) e quindi è corretto chiamarlo con l’aggettivo sostantivato (come il Pacifico, il Mediterraneo, ecc). Solo che spesso si dice Artico per intendere la Groenlandia o altre terre ben emerse.
E forse è un calco dall’inglese l’uso sempre più frequente dell’espressione “il Sudcorea”: una tendenza ormai entrata nell’italiano in casi come Sudafrica o Nordamerica. A proposito di Nordamerica: un classico errore di chi traduce dallo spagnolo è scrivere sbadatamente “nordamericano”, senza pensare che “norteamericano” è usato allo stesso modo del nostro “americano” per intendere “statunitense”.
Una variante è lasciare nella lingua originale i toponimi che hanno una traduzione in italiano ma non in inglese: Mainz, Szeged, Sulawesi, eccetera. Conosco persone che sono tornate dalla pittoresca città di Regensburg senza sapere di essere stati a Ratisbona.
Un caso particolare è Dubrovnik: l’italiano “Ragusa” sta sparendo dall’uso comune sia per l’ignoranza delle guide (e quindi dei turisti) sia per il possibile equivoco con l’omonima città siciliana. Visto che la lingua si modifica secondo la parlata, dire “Dubrovnik” mi sembra ormai quasi accettabile (lo sarebbe ancora di più – a essere pignuoli – se lo si pronunciasse alla croata, cioè con l’accento sulla “u”).
È invece del tutto ingiustificabile usare il termine inglese quando è diverso sia dalla versione locale sia da quella italiana. Un caso tipico è Guatemala City, particolarmente irritante per un ispanofono.
Anche qui non sono solo i turisti a sbagliare: un importante documento ufficiale di una grandissima azienda italiana con interessi in molti Paesi del mondo, parlando del Parco Nazionale degli Alti Tatra, in Slovacchia, lo chiama “Parco nazionale High Tatras”.
Spesso poi l’errore riguarda l’uso delle preposizioni e degli articoli: capita quando i giornalisti/traduttori non si chiedono se il toponimo si riferisce a una città, a uno Stato o ad altre cose ancora. Capita di leggere “è andato a Pernambuco”, “vive a Kerala” e simili.
La confusione aumenta quando Stato e città hanno lo stesso nome (New York, Rio de Janeiro, eccetera). E fare chiarezza su questo punto non sempre serve: il Venerdì di Repubblica parlava recentemente di un film girato “a New York Upstate”. Chissà se il giornalista si è chiesto cosa volesse dire.