giovedì 30 gennaio 2014

Quattordici cartelle al giorno

Di Luciano Bianciardi ai traduttori capita di parlare spesso, e a ragione, e con cognizione di causa (ad alcuni giornalisti, invece, è rimasta impressa solo quella cosa lì della “vita agra” e la ritirano fuori a ogni piè sospinto).

Ma forse non ci rendiamo conto – o almeno non me n'ero reso compiutamente conto io prima di un certo incontro fortuito – di quanto dovesse essere stata faticosa la sua attività di traduttore, in mezzo alla quale trovava pure il tempo di scrivere del suo.
Cercando in rete una cosa su Bianciardi, ho trovato il sito a lui dedicato, curato dai figli, che contiene tra l'altro un elenco di tutte le sue traduzioni (anno per anno, dal 1955 al 1972). Ho cominciato a compulsarlo, sorridendo ogni tanto quando mi rendevo conto di avere, senza saperlo, più di un libro tradotto da lui.
Ma la cosa che fa impressione è la quantità, oltre che l'eterogeneità, del materiale che traduceva. Nel giro di pochi mesi si va da Faulkner a Kennedy, dalla Fisica del neutrone al Tropico del Cancro e al Tropico del Capricorno di Henry Miller (pubblicati dalla Feltrinelli, ma per i quali «per eludere la censura, si finse un’edizione all’estero, riservata al mercato estero, adoperando il marchio prestato da un editore svizzero [Impr. la Semeuse]; in realtà il volume fu stampato a Varese, immagazzinato in Italia e venduto sottobanco»).
Soprattutto, ciò che è importante e attualissimo, in questo modo ci si può fare indirettamente un'idea di quanto poco venisse pagato. Ci furono anni, soprattutto all'inizio dei Sessanta, in cui tradusse anche 5000 pagine (pagine stampate, non cartelle, ma un'idea la danno). E dato che non mi risulta avesse esattamente una flotta di limousine, penso alla miseria che doveva ricevere.
(Angolino aritmetico: 5000 pagine in un anno significano quasi 14 pagine al giorno, estate e inverno, domeniche e feste comandate, sani o malati, comprese riletture, ricerche o qualsiasi altro lavoro accessorio. E tutto a ditate sui tasti della macchina per scrivere.)

venerdì 24 gennaio 2014

Amore, matematica e picnic

Come sa chi mi conosce, mi divertono le piccole coincidenze, ed eccone una.
In questi giorni sto leggendo Roadside Picnic (Piknik na obočine) di Arkadij e Boris Strugackij – noto anche per il film Stalker che ne trasse Tarkovskij – nella traduzione inglese di Olena Bormashenko. Perché ne stia leggendo questa versione, dopo averla raffrontata con la precedente traduzione inglese e le due italiane, è un'altra storia.
Sempre in questi giorni sto traducendo Love and Math di Edward Frenkel, un saggio molto autobiografico di un matematico russo.
Si tratta quindi, in entrambi i casi, di testi in inglese scritti da autori nati in Russia, e inoltre anche Boris Strugackij aveva una formazione scientifica, ma c'è qualcosa di più specifico.



L'Unione Sovietica era un grande paese, composto da molte nazionalità, ma “nazionalità” era anche un termine specifico, che di fatto serviva per distinguere le minoranze sgradite: tra le nazionalità c'erano gli armeni, i tatari e, ovviamente, gli ebrei. E la nazionalità risultava a chiare lettere sulla tristemente famosa pjataja grafa, la “quinta riga” del passaporto interno, dopo nome, patronimico, cognome e data di nascita.
Se i genitori erano di nazionalità diverse potevano scegliere quale assegnare ai figli, ed è comprensibile che se solo uno dei due era ebreo, a volte per quieto vivere non fosse quella la nazionalità scelta.

E questo è esattamente il caso sia dei fratelli Strugackij che di Frenkel, sia gli uni che l'altro di madre russa e di padre ebreo, nella classificazione sovietica degli esseri umani. In tutti e tre i casi loro avevano nazionalità russa, ma in tutti e tre i casi la cosa non bastò a impedire seccature (hint: eufemismo).
In un caso il cognome Frenkel stesso tradiva le origini ebraiche e, se non fosse bastato, anche il nome del nonno paterno (che risultava dal patronimico del padre), Joseph.
Nell'altro caso, a tradirli era il patronimico di Arkadij e Boris, Natanovič, tanto che arrivarono addirittura a usare il patronimico falso Nikolajevič, il primo in un passaporto interno (ma si era anche nel 1942, con i tedeschi alle porte) e il secondo a scuola. Maggiori lumi in una bella recensione (in inglese) di una biografia russa degli Strugackij.