giovedì 27 settembre 2012

Conti del Lazio

Sulla scia delle dimissioni di Renata Polverini dalla presidenza della Regione Lazio, annunciate (e ancora non avverate nel momento in cui scrivo), sono apparsi a Roma i manifesti che riproduco qui e che, dando prova di un certa qual improntitudine, sembrano magnificare la gestione finanziaria dell’attuale consiglio regionale.
Non posso escludere d’altronde che si tratti di una sottile opera satirica a danno della Polverini dovuta a qualche altra parte politica, o apolitica, perché tanto normali questi manifesti non sono. Intanto, per un ente non è necessariamente un vanto il fatto in sé di ridurre il bilancio (bisogna vedere quali voci, come, perché): è come dire che spendo meno per mangiare. Magari prima mangiavo normalmente e ora mi limito al pane secco.
Poi non è ben chiaro rispetto a cosa siano calcolate le varie riduzioni e tagli (l'anno scorso? la legislatura precedente? il bilancio statale del Nebraska? le previsioni sbagliate?).
Ma soprattutto, e di maggior rilevanza per i pignuoli, che cosa vuol dire “ridotte del 183% le spese di comunicazione”? Cioè, proprio aritmeticamente, che significa? Per ogni 100 euro che si spendevano prima, adesso... che cosa? Ne entrano 83? È oggettivamente difficile ridurre una quantità di più del 100%, a meno di non entrare nei numeri negativi. E le spese negative sono un po’ strane.
(E sì che io sono un fautore del concetto di “denaro negativo”: un mondo in cui quando prendo un cappuccino mi danno una bella moneta da -1 euro, oppure in cui i ladri infilano con destrezza banconote negative nelle tasche della gente.)

Visto che questo manifesto fa parte delle stesse attività di comunicazione su cui si vantano tagli draconiani, la mia unica speranza è che si tratti di uno scherzo, o di un messaggio in bottiglia, da parte di qualche stagista non pagato...

venerdì 14 settembre 2012

I sette Gipsy Kings

Non comprendo la furia dei venti, cantava il poeta. Io non comprendo neanche molte altre cose, in due delle quali mi imbatto quasi quotidianamente.

Una è: se un “evento”, una mostra-mercato, una manifestazione di qualsiasi tipo si svolge in Italia, in lingua italiana e presumibilmente la stragrande maggioranza dei partecipanti sarà italiana, perché darle un nome inglese?

Un’altra, collegata alla prima, è: poniamo che Šiva distruttore di mondi ti abbia imposto di dare un nome inglese alla tua fiera, perché altrimenti distrugge una manciata di mondi a casaccio. Ma allora perché i nomi delle città li lasci in italiano?
Perché scrivi “Milano Book Fair” anziché “Milan etc.”?
Perché scrivi “Taste of Roma” invece di “... of Rome”?

Esistono entrambi, ma non metto i link (che non è difficile trovare) perché entrambi i siti sono molto brutti - e di bruttezza è già troppo pieno il mondo - ed entrambi emettono suoni appena ci si collega.

Questi sono solo i due casi in cui mi sono imbattuto nell’ultimo paio di giorni, ma sono in enorme compagnia. Nella sola capitale, che per ovvî motivi conosco meglio, c’è una “Roma Rock School”, varie iniziative dedicate alla canzone “of Roma” etc.
E per questa città il problema non è neanche solo puramente di coerenza linguistica, ma anche semantico: in inglese “Roma” vuol dire “Rom”, e quindi un anglofono può benissimo fraintendere tutte quelle comunicazioni pubblicitarie e ritenersi fortunato di essere arrivato in un paese che non solo non vessa gli zingari, ma in cui i “figli dell’arcobaleno” possono liberamente organizzare iniziative in cui presentano le loro canzoni, la loro cucina...