venerdì 9 aprile 2010

Il triplo ritratto di Dorian Gray

Di recente ho letto Il ritratto di Dorian Gray di Wilde e ho visto due dei film che ne sono stati tratti, uno nel 1945 e l'altro nel 2009.

Ne esiste almeno una quindicina di versioni cinematografiche, tra cui una ungherese del 1918 con Béla Lugosi e una italo-tedesco-britannica del 1970 con Helmut Berger, di cui è stato detto: “One of the most interesting things Dallamano does with Dorian is to wrap him in Zebra fur. Dorian has zebra drapes on his windows and zebra fur rugs on his floors. By the end of the film Dorian is dressed in a floor length zebra fur coat that would make many pimps in 1970 envious.” (“Una delle cose più interessanti che Dallamano [il regista della versione con Helmut Berger] fa con Dorian è rivestirlo di pelli di zebra. Dorian ha tende di zebra alle finestre e tappeti di zebra sul pavimento. Prima della fine del film Dorian indossa un cappotto di zebra lungo fino ai piedi, che avrebbe reso invidiosi molti papponi del 1970.”)

Di per sé, che un adattamento cinematografico segua più o meno pedissequamente il romanzo che lo ha ispirato ovviamente non dice ancora nulla sulla qualità del film. E non dice molto neppure sulla “fedeltà” intesa in senso generale. Dopo tutto la narrativa e il cinema sono linguaggi diversi, hanno tempi, metodi, sintassi differenti: quindi un film può mantenere buona parte dello spirito del libro di partenza pur prendendosi varie libertà dalla lettera del testo. Ho sentito più volte citare il Signore degli anelli di Peter Jackson come esempio positivo in questo senso, e sono d'accordo.

Che ne è, da questo punto di vista, di queste due incarnazioni su celluloide del romanzo di Wilde?

The Picture of Dorian Gray del 1945 fu scritto e diretto negli Stati Uniti da Albert Lewin, che per buona parte della sua carriera fu soprattutto sceneggiatore, revisore di sceneggiature e produttore esecutivo: i protagonisti sono Hurd Hatfield nel ruolo del protagonista e George Sanders in quello del suo cinico mentore, Lord Henry Wotton (e Angela Lansbury, giovanissima, interpreta Sybil Vane, la prima donna amata da Dorian). Nel Dorian Gray britannico del 2009 i due sono interpretati rispettivamente da Ben Barnes (noto soprattutto come principe Caspian, di Narnia) e Colin Firth: lo sceneggiatore è l'esordiente Toby Finlay, mentre il regista Oliver Parker ha girato un'altra mezza dozzina di film tra cui due produzioni wildiane.

La versione del 1945 è nettamente superiore. Ci sono due aspetti del cinema di quel tempo e luogo che giocarono a favore della sua buona riuscita. Si tratta di due aspetti che a priori sono limiti alla libertà di chi fa un film: il bianco e nero (ma di questo riparliamo subito) e il codice Hays (e di questo parliamo fra poco).

La versione del '45 è in un bel bianco e nero, con eleganti riprese delle case signorili di Dorian e degli altri protagonisti e ombre sinistre che tagliano le scene dei locali malfamati che il nostro frequenta nella sua ricerca del piacere. Il film fa un'unica - anzi, duplice - concessione a un effettaccio per colpire lo spettatore: la prima volta che compare il ritratto del protagonista, perfetto nella sua gioventù e bellezza, e poi di nuovo quando ricompare anni dopo, trasformato dall'età e dai vizî fino a essere irriconoscibile, lo vediamo per pochi istanti nello splendore del Technicolor. Anche se si fosse voluto mostrare in modo più esplicito l'abbrutimento morale di Dorian Gray, in quell'epoca non sarebbe stato possibile.

Notoriamente il codice Hays, o più propriamente il “Motion Picture Production Code”, imponeva limiti strettissimi agli argomenti che si potevano menzionare in un film, e al mondo in cui potevano essere mostrati. In particolare qualunque allusione al sesso era fuori questione. Perfino una coppia sposata non poteva essere mostrata insieme - neppure addormentata - in un letto matrimoniale: non parliamo poi di adulterî, omosessualità, perversioni... Ma in questo caso, trovo che la pruderie del codice Hays e la morale vittoriana dei tempi di Wilde formino un connubio ben sintonizzato: la prima collabora a preservare le allusioni oblique, le ellissi, i cenni fugaci dovuti alla seconda e al buon gusto di Wilde.

Per esempio, nel romanzo si dice che:
Women who had wildly adored him, and for his sake had braved all social censure and set convention at defiance, were seen to grow pallid with shame or horror if Dorian Gray entered the room.

(Donne che avevano adorato appassionatamente [Dorian Gray] e per lui avevano affrontato il biasimo della società e sfidato le convenzioni, furono viste impallidire di vergogna o sgomento se Dorian Gray entrava nella stessa sala.)
E nel film del 1945 viene mostrata questa precisa situazione.

Un altro momento suggestivo dello stesso film è quello in cui Dorian si trova in un locale malfamato dove sta aspettando qualcosa. Ascolta un pianista finché un figuro gli apre una porta che inquadra una scala quasi espressionista che va ai piani superiori: il nostro ne varca la soglia, il figuro lo segue e si chiude la porta alle spalle. Fine della scena.
Il film del 2009, invece, è infinitamente impaziente e anche didascalico: in una situazione analoga ci mostra con gran copia di nudità e umori che cosa succede al piano di sopra. Paradossalmente, sembra un film - per così dire - per bambini. Un adulto può immaginare il tipo di posti in cui Lord Henry porta Dorian per fargli conoscere la vita e i suoi piaceri, ed è a questo adulto che parlano il romanzo e il primo film. Il secondo film invece parla al distratto che, figuratamente, dice: «Dov'è che lo porta? Al circo?», e gli mostra un bordello con dovizia di dettagli. Ovviamente, non c'è niente di male nel mostrare l'interno di un bordello vittoriano, e in altre circostanze può essere un soggetto interessante. Ma qui è, paradossalmente, fuorviante ai fini della storia che racconta. Se Indiana Jones si afferra a una liana per sfuggire a una trappola, Spielberg non si dilunga sui meccanismi biologici che hanno portato alla formazione di quella tal specie di pianta dotata di liane.
Le liane servono a Indiana Jones per salvarsi e far proseguire la storia, così come i locali equivoci servono a Dorian Gray per dannarsi e far proseguire la storia.
Ma la cosa più grave è che essere così espliciti è un po' come spiegare le battute...

martedì 6 aprile 2010

Kurt Gödel e la dimostrazione dell'esistenza di dio

È uscito un mio articolo sull'ultimo numero della rivista “Noncredo”, a proposito della cosiddetta dimostrazione dell'esistenza di dio elaborata da Kurt Gödel. Eccolo qui (compreso il paragrafo finale di bibliografia che non è comparso sulla rivista).

Kurt Gödel e la dimostrazione dell'esistenza di dio

Kurt Gödel fu uno dei più grandi logici di tutti i tempi. Gli si devono alcuni risultati fondamentali in vari ambiti della logica, i più noti dei quali sono i teoremi di incompletezza, che descrivono i limiti intrinseci di qualunque sistema formale.
Tra le carte di Gödel - ne parlò a un collega nel 1970 ma probabilmente risale a molti anni prima - si trova anche una dimostrazione, concisa (due scarse pagine manoscritte) e puramente logica, dell'esistenza di dio. Di fatto si tratta di una rielaborazione delle varie prove ontologiche con cui, da Anselmo d'Aosta a Cartesio e a Leibniz, si è cercato di stabilire per via razionale la necessità dell'esistenza di dio, partendo da una definizione astratta dell'ente supremo e mostrando che come conseguenza di questa definizione l'ente non può non esistere. Una di queste versioni, semplificando, consiste nel dire: “Definiamo dio come l'ente dotato di tutte le possibili perfezioni; esistere è una perfezione (rispetto a non esistere), e quindi dio esiste”.




La dimostrazione di Gödel
La principale novità introdotta da Gödel consiste nell'esplicitare i possibili assunti che prima potevano rimanere impliciti, e nell'usare il formalismo e i metodi della logica modale, cioè di quel tipo di logica che tiene conto delle “modalità”: un'affermazione non è solo vera o falsa, ma può essere vera in modo necessario, oppure possibile (cioè non è necessaria la sua negazione), oppure contingente (cioè non è necessaria né essa né la sua negazione), o altro.
Semplificando, la linea della dimostrazione di Gödel parte dal definire formalmente il concetto di “proprietà positive”. Intuitivamente, si tratta dei classici attributi, o perfezioni, come l'onnipotenza, l'immortalità, la giustizia, la compassione e così via. Ma di tutto ciò, nel testo di Gödel, non si fa menzione. Si descrivono le proprietà positive in astratto, definendole come si fa per gli enti matematici. Si dichiara che l'unione di due proprietà positive è ancora una proprietà positiva, che se una cosa non è una proprietà positiva allora lo è la sua negazione, e così via.
Dio, o meglio la proprietà G che viene interpretata con il significato di “essere dio”, viene così definita come la proprietà consistente nel possedere tutte le proprietà positive.
Vengono inoltre dati alcuni assiomi, i veri e propri punti di partenza del ragionamento, tra cui per esempio il fatto che l'“esistenza necessaria” sia una proprietà positiva, e che ogni proprietà che sia conseguenza di una proprietà positiva sia a sua volta positiva.
A partire dalle definizioni e dagli assiomi si sviluppa una serie di passaggi che, pur costituendo la dimostrazione vera e propria, paradossalmente ne sono la parte meno interessante e più tecnica rispetto all'impostazione generale e agli assunti scelti per dare il via al ragionamento. Applicando gli strumenti della logica modale si deduce dapprima che è possibile che esista qualcosa che ha la proprietà G; e poi che se è possibile che esista allora è necessario. Quindi, dio esiste.

Cosa c'è che non va?
Uno dei meriti dell'operazione di Gödel è di aver precisato compiutamente i termini che si utilizzano in questo tipo di dimostrazione e i rapporti tra essi. Per citare Roberto Magari, “in ogni caso il lavoro di formalizzazione e, di conseguenza, di chiarimento, fatto da [Gödel] è degno di ammirazione anche se, sembra a me, da tali concetti è improbabile cavar fuori qualcosa di rilevante”. Infatti, al di là dei suoi meriti, la dimostrazione di Gödel soffre in buona parte dello stesso tipo di difetti di tutte le altre prove ontologiche che l'hanno preceduta, difetti che già Kant aveva messo in luce.
Innanzi tutto il punto di partenza del ragionamento, cioè gli assiomi che vengono presi come base di tutto il resto, non sono in realtà molto più ovvii o facili da accettare delle conclusioni che ne vengono tratte. È stato anche rilevato che, sebbene gli assiomi non portino a contraddizioni formali, potrebbero dar luogo a una contraddizione una volta interpretati in termini etici o fisici: per esempio si può non concordare sul fatto che l'unione di due proprietà positive sia ancora una proprietà positiva, o sia anche solo concepibile (come succede per attributi non del tutto compatibili come la trascendenza e l'onnipresenza).
Inoltre è difficile, se non impossibile, passare dal mondo puramente astratto delle idee logiche all'esistenza concreta di qualcosa (dio, in questo caso), deducendo questa da quelle. Ed è discutibile già il fatto stesso di considerare l'esistenza in sé come una proprietà o una perfezione. Per molti filosofi si tratta semplicemente della copula di un giudizio, del verbo “essere” di una frase.
Infine molti, anche credenti, non condividerebbero il concetto di dio descritto da questo tipo di dimostrazioni, o addirittura non sarebbero d'accordo con l'idea stessa che sia possibile circoscrivere in termini umani l'essenza di un dio e tanto meno, quindi, manipolarla con procedimenti formali.

Gödel e dio
E allora come è possibile che una delle più grandi menti del XX secolo sia caduta nella secolare tentazione di risolvere con metodi terreni un problema che per sua stessa natura non si presta a questo approccio?
Prima di tutto, stiamo parlando di un appunto privato. È verosimile che sia solo poco più di un esercizio, un'analisi formale di un certo ragionamento, di cui Gödel si limitò a mettere in luce la struttura e a esplicitare il contenuto, alla luce del linguaggio e dei metodi della logica modale.
In secondo luogo un ragionamento di questo tipo, che va dal puramente logico al metafisico, è un'espressione di una certa forma mentis, portata a un estremo. Nella logica, se un sistema formale (un insieme di simboli e di regole per manipolarli) non contiene contraddizioni, cioè se non è possibile dedurre al suo interno sia un'affermazione sia la sua negazione, allora in qualche senso questo sistema esiste. In genere questa esistenza è del tutto astratta: è possibile costruire un “modello” matematico che realizza tutte le proprietà di quel sistema formale. Normalmente non si intende che esista qualche oggetto fisico - o metafisico - descritto dal sistema formale. Nello stesso spirito, pare che Gödel fosse interessato a studiare la non-contraddittorietà - e quindi, in teoria, la possibilità - di varie teorie scientifiche e no, compreso lo spiritismo, la sopravvivenza dell'anima e così via.
Infine, pare che Gödel si considerasse un teista e avesse effettivamente un vivo interesse personale e, potremmo dire, una grande apertura mentale nei confronti di numerose possibilità, dalla vita oltre la morte e la trasmigrazione delle anime ai fenomeni paranormali. Su questo non si può dire molto, perché Gödel tendeva a essere schivo sulle sue opinioni personali e molto raramente le esprimeva in pubblico: la maggior parte di quello che sappiamo viene da testimonianze di conoscenti o dalla corrispondenza privata, tra cui alcune lettere in cui la madre lo metteva in guardia dai possibili millantatori in questo campo.

Mi piace concludere con una frase tratta dai taccuini di Gödel: “Dedicarsi alla filosofia è in ogni caso salutare, anche quando da ciò non emerge alcun risultato positivo (ma io rimango sconcertato). Ha l'effetto che «il colore appare più brillante», cioè che la realtà appare con maggior chiarezza come tale.”

Ulteriori letture
Per approfondire sia la dimostrazione vera e propria che il posto che ha nell'opera e nella vita di Gödel nonché nella storia delle prove ontologiche, è prezioso il volumetto Kurt Gödel, La prova matematica dell'esistenza di Dio, a cura di Gabriele Lolli e Piergiorgio Odifreddi (Bollati Boringhieri), dove il testo della dimostrazione e degli altri scarsi appunti relativi tratti dai taccuini di Gödel è accompagnato da utilissimi saggi di approfondimento; è incluso un articolo del grande logico matematico e filosofo, vero “maestro laico”, che è stato il già ricordato Roberto Magari, fondatore tra l'altro della rivista neo-illuminista Dubbio.
Sulla possibile incompatibilità delle proprietà divine tra loro, cui si accennava sopra, si veda l'articolo di Theodore M. Drange, “Incompatible-Properties Arguments: A Survey” (apparso sulla rivista Philo e ora disponibile in rete all'indirizzo http://www.infidels.org/library/modern/theodore_drange/incompatible.html).
Per apprendere qualcosa sull'opera di Gödel in generale e in particolare sui suoi teoremi di incompletezza, consiglio La prova di Gödel di Ernest Nagel e James R. Newman (Bollati Boringhieri) e quella cavalcata tra logica, arte e musica che è Gödel, Escher, Bach di Douglas Hofstadter (Adelphi).